domenica 16 ottobre 2016

Le campane tibetane



Oggi parliamo di un argomento che, se a prima vista può sembrare distante dai nostri discorsi, ha invece varie connotazioni in comune.
Da qualche tempo mi occupo di tecniche sonoro-vibrazionali con l'utilizzo delle campane tibetane, vediamo un po' perché funzionano.
Partiamo da cosa è l'essere umano, già quindi andiamo ad affrontare una visione molto buddista, oltre che di altre filosofie. Per la visione occidentale moderna, il corpo umano è fondamentalmente composto di materia, tessuti, organi, liquidi e fluidi il tutto per la maggior parte composto da acqua. Ed è nella materia che vanno ad evidenziarsi i malesseri, dal mal di testa a tutto il resto. Questa materia è composta, come ci dice la scienza di cellule e, andando più a fondo di atomi che vibrano continuamente producendo energia. La visione occidentale spesso si ferma qui, materia, cellule, atomi che vibrano. Per la visione orientale, più profonda e spiegata dal Budda qualche annetto addietro, ma anche da altri filosofi prima di lui, il fatto che questi atomi producano energia fà si che il corpo fisico in realtà sia energia. Lo ha detto anche dopo il Budda Einstein. In effetti potremmo dire che la materia si evidenzia come energia rallentata. Esistono quindi, come nei circuiti elettrici, all'interno del corpo dei punti energetici, i cosiddetti chakra, sette principali, vari secondari e via via più piccoli, fino ad arrivare a circa quattromila punti energetici, una vera e propria centrale elettrica con le sue diramazioni e ovviamente i suoi percorsi, i canali energetici chiamati "nadi". Ed è da qui che i malesseri si vanno ad evidenziare nel corpo fisico, a causa di blocchi del flusso energetico e problemi nella circolazione dell'energia... ci ammaliamo. Come quando c'è un guasto alla linea elettrica e restiamo senza luce in casa. Ma perché si creano queste disfunzioni energetiche? Perché oltre i due livelli fin qui esposti, vi è la vera essenza dell'essere umano: la coscienza. Intesa come la vera entità che siamo, l'essenza spirituale che ci contraddistingue ed lì che nascono i malesseri. Lo stress, le ansie, le paure, gli stati emotivi non piacevoli creano dei malfunzionamenti al flusso energetico, e questi a lungo andare portano l'evidenza di questo malessere della coscienza al corpo fisico generando la malattia. Chiaramente si può essere d'accordo o no su tutto questo, è un modo di vedere.
Premesso questo stato delle cose, cosa fanno le campane?
Le prime notizie su di loro risalgono all'epoca in cui il Budda inizia la sua missione sulla terra, in quegli anni dal Nepal, da cui sono originarie e dove ancora oggi vengono create, arrivano in India. Venivano usate dai monaci come piatti e come ciotole per l'elemosina e poi guarda un po' come strumenti terapeutici. Negli anni '50 a causa della diaspora dei tibetani dal loro paese a seguito dell'occupazione cinese, fanno il loro arrivo in occidente.
Ancora oggi vengono realizzate a mano, dalla fusione di sette metalli, i sette metalli legati ai sette pianeti, compresa la luna e legati ai sette chakra principali.
Ma come e perché dovrebbero essere terapeutiche? Innanzitutto perché la vibrazione che emettono è sulla stessa frequenza delle vibrazioni delle cellule umane, intervenendo così a livello fisico nel ripristinare l'originaria vibrazione ed eliminando scompensi. Parlando di frequenze è chiaro che si parla anche di energia ed ecco quindi che vanno ad agire sul campo energetico eliminando eventuali blocchi e ripristinando il fluire nei canali energetici.
Ovviamente emettono dei suoni, questi suoni hanno la frequenza principalmente di due tipi di onde: beta che vanno a creare rilassamento e benessere mentale, theta che sono le onde più profonde, usate quando si medita, le onde che ci permettono la correlazione con tutto il cosmo, con la coscienza universale. Così quindi lavorano al livello più profondo che accennavamo prima, andando a rimuovere, o almeno permettendoci di vedere, di prendere consapevolezza della vera causa originaria dei nostri malesseri. Non vanno chiaramente a sostituire i tradizionali metodi terapeutici, di qualsiasi tipo di medicina vogliamo intendere, ma mentre, a mio parere, i medicinali si focalizzano sul sintomo, le campane lavorano sulla causa.

Ho un dolore alla cervicale, prendo l'antinfiammatorio mi passa. Certo il sintomo, ma la causa? Perchè avevi quel dolore? Quale ne è la causa? Le campane, come altri metodi definiti olistici, possono aiutarci ad andare più a fondo, ad eliminare la causa perché non si presenti più il sintomo. Ancora oggi io stesso, che lavoro quotidianamente con loro, resto a volte sorpreso dai risultati che si riescono ad ottenere. Certo la più grande soddisfazione è quella di ricevere sinceri ringraziamenti e vedere un cambiamento positivo non solo sul piano fisico, ma anche mentale e spirituale di chi si sottopone ai trattamenti.


domenica 19 giugno 2016

Ed eccoci in estate

Ed eccoci ormai alle porte della stagione estiva. Da settembre, quando è nato ad oggi “a spasso con Budda” vi ha tenuto compagnia, spero in maniera piacevole e interessante. Si è parlato di buddismo, del Tibet, di meditazione. 
Ora con l’arrivo dell’estate per molte persone giustamente arriva il periodo del mare, delle uscite, del tirare un po’ più tardi la sera. Così anche il blog si concede una vacanza. 
Riprenderò a pubblicare post a settembre e già sono in programma diversi articoli che andranno ad affrontare qualche tema impegnativo del buddismo; si parlerà di vacuità, del Sé e della sua “esistenza”, torneremo ad affrontare meditazioni pertinenti a questi argomenti. 
Per ora quindi auguro a tutti voi un’estate serena, piacevole e, se ne avrete voglia, una piccola meditazione, magari all’aria aperta, potrà favorire il contatto con noi stessi e con l’intero universo di cui facciamo parte. 
Buone vavanze.



domenica 5 giugno 2016

La presa di Rifugio

Negli articoli fin qui pubblicati, ho esposto diversi argomenti correlati agli insegnamenti del Buddha, alla meditazione e a un po' di storia. Si è parlato quindi sia di teoria che di pratica; vorrei ora illustrare quello che può essere un momento molto particolare ed importante per chi segue la pratica del buddismo tibetano: "la presa di rifugio".
Come tutto nel buddismo è una scelta personale, quindi anche in questo caso si ha la piena decisionalità e di conseguenza la responsabilità di ciò che si è scelto.
Prima di vedere in cosa consiste "rifugiarsi" vediamo in cosa si cerca rifugio.
Ci si rifugia nei cosiddetti tre gioielli: il Buddha, il suo insegnamento il Dharma, la comunità dei credenti il Sangha. Tre gioielli perché racchiudono e rappresentano la ricchezza per l'essere umano durante il suo percorso per migliorarsi. Il Buddha chiaramente è il maestro, l'illuminato che ci ha consegnato l'insegnamento per raggiungere noi tutti l'illuminazione, la comunità di tutti i credenti, monaci e laici, rappresenta quell'unione di persone spinte verso la stessa meta da un unico intento.
Ci si rifugia quindi in questi gioielli, con una semplice cerimonia celebrata dal monaco che si è scelti, che può essere anche preso come proprio maestro, cioè la persona che riteniamo possa insegnarci a migliorare e a seguire il cammino, ma la scelta del maestro non è vincolante e i maestri si possono modificare nel tempo. Tornando alla cerimonia, spesso si svolge "in forma privata" si direbbe usando un termine formale, cioè maestro e rifugiante. Il monaco recita una serie di preghiere e formule, rigorosamente in tibetano, e al termine fa ripetere al discepolo per tre volte una formula di intento di presa di rifugio, tradotta più o meno risulterebbe: "prendo rifugio nel Buddha, nel Dharma, nel Sangha". Il maestro attribuisce anche un nome al praticante, composto da un nome sacro che discende dallo stesso nome del monaco e un nome attribuito in base alle qualità che il maestro vede in colui che sta prendendo rifugio. Un po' cognome e nome.
Fin qui abbiamo visto la parte più pratica e tecnica della presa di rifugio, ma cosa comporta questa scelta manco a dirlo è molto più profondo. Alla decisione di prendere rifugio ci si arriva, solitamente dopo anni di studio e pratica, non è proprio come un battesimo da neonati, ci si arriva, se ci si arriva, nel momento in cui emerge la consapevolezza di aver compreso che quell'insegnamento sia quello giusto per la nostra evoluzione. Si decide quindi di impegnarsi appieno nel suo sviluppo. Non a caso ho usato la parola impegnarsi, la presa di rifugio infatti comporta degli "impegni".
Innanzitutto una pratica quotidiana come quella di ripetere varie volte durante il giorno la formula della presa di rifugio, al mattino recitare una preghiera per il beneficio di tutti gli esseri senzienti ed alla sera dedicare tutti i meriti acquisiti, supponendo che se ne abbia qualcuno, ai tre gioielli per permetterci di arrivare all' illuminazione.
Fin qui sembrerebbe una pratica più che altro teorica con qualche piccolo esercizio da eseguire, ma per il buddismo non vi sembra troppo semplice? Già!
Prendere rifugio comporta soprattutto un'etica nel modo di vivere, significa aderire a dei comportamenti vicini a quelli dei voti laici. Innanzitutto ci si impegna in cinque punti di una condotta morale: non uccidere, e qui intendiamo qualsiasi essere senziente; non appropriarsi di cose non date, in pratica non rubare; non avere una condotta sessuale scorretta, in primo luogo per chi ha un o una partner non tradire, più alcune altre accortezze; non mentire; non bere alcolici.
Questi i punti principali della condotta, nel buddismo sappiamo che non ci sono ordini e comandamenti, si consiglia di seguire determinati comportamenti. Come abbiamo già visto, è tutto karma nostro.
Ai cinque punti illustrati si aggiunge poi di rispettare le immagini del Buddha, così come i testi sacri degli insegnamenti, rispettare tutti i componenti del Sangha come una grande famiglia, evitare di farsi "corrompere" da persone che vogliono deviarci dal nostro sentiero e non affidarsi ad insegnamenti diversi.
La presa di rifugio come dicevo è una scelta personale con una certa connotazione religiosa, sebbene con una pratica che, in fin dei conti, ci aiuta a ricordare e rinnovare quotidianamente gli impegni scelti.

Molti praticanti seguono il sentiero buddista per tutta la loro esistenza senza "prendere rifugio", altri lo fanno prima o dopo. Come sempre il buddismo nelle sue regole e nella sua libertà, ci ricorda che siamo noi, in prima persona, responsabili della nostra evoluzione personale.



domenica 22 maggio 2016

La Felicità

È passato qualche anno da quando incrociai il mio sentiero con quello di una bella anima, tutta colorata. Di colori vivaci, veri, che trasmettono tanta energia. Nel tempo siamo diventati amici, di quelle amicizie che senti sono nate chissà dove e quando e si ripropongono vita dopo vita. È nata poi una collaborazione, con un metodo di trattamenti olistici che abbiamo elaborato insieme, per tentare di essere utili a un po' di persone. Il suo nome è Giusy Rasile e ci dona oggi un suo bel pensiero su un concetto che dovrebbe essere il punto focale di ogni esistenza: la Felicità.
Buona lettura.

Prendo spunto per questo articolo partendo da una frase di Mariano pubblicata il ..09/12/2015  “lo scopo della pratica buddista è  di prodigarsi per permettere a tutti gli esseri senzienti di raggiungere la felicità”        
ed allora mi è venuta voglia di scrivere sulla felicità, semplicemente per come la vedo io.
Ovviamente non ho la pretesa di  proporre la formula magica per cambiare il mondo, e renderlo istantaneamente più felice, ma spero almeno di rendervi dubbiosi riguardo gli insegnamenti che dicono che la felicità sia difficile, se non impossibile da ottenere, o comunque non per tutti, altrimenti il mondo sarebbe migliore.
Io un tempo la pensavo proprio   così: che fosse difficile e non destinata a me,  finchè non ho scoperto che la felicità è una scelta che chiunque può fare, una decisione che cambia la vita. 
Non significa che ora la mia strada è sempre in discesa, ma solo che se sono in salita ne approfitto per fare i muscoli sotto sforzo!
Non è solo un concetto di pensiero positivo, ma una vera consapevolezza del potere che ogni essere possiede in quanto espressione della vita.
Che cos’è la felicità?
Cosa significa essere felici?
Io risponderei a questa domanda citando un cartone animato-romanzo  :“Pollyanna” ,che al di là di  discutibili forme di messaggi all’interno della trama, ha presentato a quelli della mia generazione “il gioco della felicità”. 
Cos’era il gioco della felicità? 
Era una sorta di “percezione selettiva della realtà” o meglio : Pollyanna vedeva solo il lato positivo in ogni cosa. 
Tralasciando l’aspetto patologico di una visione parzialmente realista, devo dire che per me è stato prezioso nei momenti più bui decidere di attivare una ricerca del positivo che ben si nascondeva in ogni apparente evento negativo.
E se un tempo lo vivevo come un gioco, ora ho scoperto che questa visione  può essere il senso stesso della vita.
Nel momento in cui riconosci la vita come un’insieme di esperienze atte a raggiungere consapevolezza ed evoluzione, non puoi che imparare, ringraziare e lasciare andare.
Non significa non star male o non permettersi il dolore, ma semplicemente riuscire a trovare il maestro che si cela dietro quella forma di esperienza.
Ecco per me la felicità è l’espressione di un atteggiamento verso la vita (dove verso significa pro, a favore di).

Cosa significa essere felici?
A qualcuno hanno insegnato che essere felici  è uno stato di appagamento che dipende da qualcosa al di fuori di sè .
Siamo abituati a pensare che  saremo felici quando avremo quella cosa o quando faremo quell’altra o quando quella persona si concederà a noi. Come se la felicità fosse una conseguenza.
Io non la vedo così, non sto a dilungarmi ora sul fatto che in realtà è il nostro stato d’animo a determinare la realtà che viviamo e non il contrario, ma mi limito a dire che siamo noi a scegliere quanto potere hanno gli eventi su di noi.
Un esempio banale: se una persona ha una cattiva opinione su di noi, lasciamo che ce l’abbia, non abbiamo necessariamente bisogno dell’approvazione di tutti e l’idea che una persona può essersi fatta di noi è solo la sua opinione.
Il problema nasce se noi crediamo di essere ciò che gli altri credono di noi.
Ognuno di noi  è dotato di talenti specifici, siamo qui per apprendere determinati tipi di lezioni, riceviamo una certa educazione e viviamo diversi tipi di esperienze, uniche per ognuno in base alla percezione personale. Poi arriva una persona esterna, con la sua mappa del mondo ed esprime un giudizio su di noi e noi invece di pensare che è solo la sua visione ci arrabbiamo o “non siamo felici” perché lui non vede il mondo come lo percepiamo noi!
Nel momento in cui abbandoniamo il bisogno di avere il controllo su ogni cosa, ci prendiamo il diritto e riconosciamo agli altri il diritto di esprimersi e possiamo accettare che le cose accadano perchè  ogni cosa ha  sempre un motivo di esistere.
E qui la domanda sorgerebbe spontanea: Quindi la felicità è una questione di fede?
Anche, ma non solo, è un non giudizio, è umiltà, è gioia,è soprattutto libertà.
La libertà di lasciare che le cose esistano e la libertà di scegliere quali parti della realtà vogliamo vivere.
E quando non posso scegliere?
 I saggi monaci buddisti dicono: “ è più facile mettere un paio di scarpe che coprire il mondo di tappeti”.. se non possiamo modificare la realtà possiamo cambiare il nostro modo di percepirla. 
C’è sempre una soluzione anche se non sempre è quella che vorremmo noi. Non siamo abituati a chiederci qual è l’utilità evolutiva di ciò che viviamo, ma guardiamo le cose attraverso le aspettative e se il mondo non ci dà ciò che le corrisponde allora noi non possiamo essere felici!
Sono esempi estremi, però è importante chiedersi se siamo proprio fuori da questi meccanismi..
Non possiamo decidere di essere felici solo se qualcuno fa della sua vita ciò che noi vogliamo.
Vorremmo evitare certe scelte per paura di soffrire non pensando che stiamo soffrendo lo stesso perché nel non scegliere stiamo scegliendo, scusate il gioco di parole!
Tra i vari strumenti di supporto che uso c’è Aura-Soma® un sistema che si presenta in tante bottigliette colorate, la maggior parte sono bicolore e sono tutte diverse tra loro. 
Amo fare un esempio specifico quando sono davanti al set delle bottigliette: chiedo di guardare tutte le bottiglie in cui c’è un colore , ad esempio l’arancione,  poi chiedo loro di distogliere lo sguardo dalle bottiglie e di dirmi in quante bottiglie c’era il verde ad esempio.. ed ovviamente arriva l’imbarazzo.  È semplice a quel punto far notare come in realtà il set è composto da almeno 15 colori in diverse tonalità ma che noi della realtà percepiamo  solo ciò che scegliamo di guardare…
Quindi la felicità alla fine potremmo dire che è il modo in cui possiamo guardare il mondo.
O almeno questo è ciò che io scelgo di vedere, e mentre continuo ad accogliere nella mia vita le prove che servono  a superare i limiti che io stessa e l’esperienze mi hanno creato, accolgo sempre la forma in cui si presentano le prove  senza mai rinunciare al mio diritto alla felicità!