domenica 1 novembre 2015

La Terza Nobile Verità

Fin qui abbiamo visto due aspetti della sofferenza: esiste (prima verità) e ha un’origine (seconda verità).
Con la terza nobile verità, finalmente cominciano le buone notizie: la sofferenza può cessare.
Ma per far cessare la sofferenza dobbiamo lavorare tanto. Quindi è si una buona notizia ma dobbiamo lavorarci e soprattutto lavorare su noi stessi… paura!!
Ricordiamo qual è la causa della sofferenza:  l’attaccamento.
Come, o meglio quando cessa la sofferenza? La risposta è facile: quando ci liberiamo dall’attaccamento.
Ma si dai e che ci vuole.
Per liberarci da esso, o almeno iniziare a provare a farlo, dobbiamo comprendere appieno la realtà delle cose, cioè la loro impermanenza. Tutto ciò che nasce cessa.
Cominciamo a lavorare su questo.
Ogni oggetto, ogni pianta, ogni essere vivente, il nostro stesso corpo è destinato a finire. Qualcuno qui potrebbe dire che la scienza definisce che tutto si trasforma e nulla si distrugge; bene, non siamo lontani dal nostro concetto: comunque cessa di esistere per come è, sebbene si “trasformi” in altro.
Ogni sensazione, ogni emozione, ogni piacere, ma anche ogni cosa spiacevole è destinata a cessare.
 Ogni pensiero, ogni idea, ogni soddisfazione ed ogni fastidio cessano.
Come disse un mio amico monaco, durante una nostra conversazione: “ogni istante è impermanente”!
La domanda che possiamo farci è: vale la pena di essere “attaccati” a qualcosa che, inevitabilmente, finirà? Se pensate di sì continuate ad esserci attaccati, nessuno vi costringe a fare il contrario, poi nel tempo osservate che succede. Se invece cominciate a pensare che forse non ne vale la pena e si potrebbe sperimentare qualcosa di diverso, allora tocca vedere come si può fare.
Diamo un’occhiata alla quotidianità; dal momento in cui ci svegliamo siamo a contatto con una miriade di oggetti, dagli ingredienti della colazione agli indumenti che decidiamo di indossare; dall’auto che usiamo per muoverci, al cellulare che portiamo sempre con noi. Ma non ci sono solo oggetti nella nostra giornata, ci sono persone, dai familiari ai colleghi a chi incontriamo per caso. Ci sono azioni “rituali” che ripetiamo più o meno frequentemente.
Fermiamoci a pensare a quanto  di ciò appena menzionato siamo attaccati.
Ora prendiamoli in esame per quello che sono e vedremo che, nel loro esistere sono impermanenti. Un’auto, un cellulare non dureranno per sempre, anzi. Le azioni che svolgiamo, inevitabilmente, cambieranno nel tempo, quindi cesseranno a favore di altre. Le persone verranno inevitabilmente a mancare. Allora chiediamoci se vale la pena di esservi attaccati.
Non esservi attaccati non significa, ripeto, rinunciarvi, fare gli eremiti, significa sapere che cesseranno, viverli sapendo che non ci saranno più. Significa vivere la propria vita con la consapevolezza di lasciare andare. Vorrei portare un esempio, forse un po’ duro per qualcuno, di una circostanza a cui ho assistito:  “un paio di anni fa ad un monaco di un importante monastero di scuola tibetana, venne presentata una persona in evidente stato di sofferenza emotiva, venne detto al monaco che questa persona soffriva per la perdita di un caro anziano parente. La risposta del monaco fu:”perché, che si aspettava?”
Questo, a mio parere, racchiude un grande insegnamento sul significato e la comprensione dell’impermanenza.
Se l’attaccamento è la causa origine della sofferenza, vivere con la consapevolezza che tutto è destinato a cessare eliminerà la causa e di conseguenza la sofferenza. Inoltre si potrebbe imparare a vivere al meglio le cose, dagli affetti alle situazioni, dalle emozioni alle  sensazioni, ricordiamoci che non solo le cose a cui siamo legati cesseranno, ma anche le situazioni che ci creano danno. Troppo spesso oggi si vive con superficialità, in occidente hanno creato la società del mordi e fuggi, uno stile di vita dove si ha la sensazione di avere tutto o volere tutto, ma non si assapora nulla. Vivendo appieno le cose, sapendo che finiranno, inevitabilmente, le farà certamente apprezzare meglio. Un esempio molto pertinente è stato fatto più volte e da diversi monaci durante alcuni incontri. Ultimamente mi ha divertito l’espressione usata da una monaca italiana, di scuola tibetana: “ Ho visto gente mangiare in piedi”. Troppo spesso non facciamo caso neppure a cosa mangiamo, lo facciamo distratti pensando ad altro, parlando d’altro, guardando la tv. Tutto ciò non va bene per il nostro corpo e meno per la nostra mente, anche quel cibo presto finirà, perché lo stiamo mangiando, godiamone l’aroma, il sapore. Poi il nostro organismo ne godrà delle qualità nutritive.
Per arrivare a comprendere e a vivere tutto ciò, non abbiamo bisogno di inventarci qualcosa o arrovellarci  sul come fare. Il Buddha ci ha spiegato tutto nell’esposizione della Quarta Nobile Verità.



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