domenica 16 ottobre 2016

Le campane tibetane



Oggi parliamo di un argomento che, se a prima vista può sembrare distante dai nostri discorsi, ha invece varie connotazioni in comune.
Da qualche tempo mi occupo di tecniche sonoro-vibrazionali con l'utilizzo delle campane tibetane, vediamo un po' perché funzionano.
Partiamo da cosa è l'essere umano, già quindi andiamo ad affrontare una visione molto buddista, oltre che di altre filosofie. Per la visione occidentale moderna, il corpo umano è fondamentalmente composto di materia, tessuti, organi, liquidi e fluidi il tutto per la maggior parte composto da acqua. Ed è nella materia che vanno ad evidenziarsi i malesseri, dal mal di testa a tutto il resto. Questa materia è composta, come ci dice la scienza di cellule e, andando più a fondo di atomi che vibrano continuamente producendo energia. La visione occidentale spesso si ferma qui, materia, cellule, atomi che vibrano. Per la visione orientale, più profonda e spiegata dal Budda qualche annetto addietro, ma anche da altri filosofi prima di lui, il fatto che questi atomi producano energia fà si che il corpo fisico in realtà sia energia. Lo ha detto anche dopo il Budda Einstein. In effetti potremmo dire che la materia si evidenzia come energia rallentata. Esistono quindi, come nei circuiti elettrici, all'interno del corpo dei punti energetici, i cosiddetti chakra, sette principali, vari secondari e via via più piccoli, fino ad arrivare a circa quattromila punti energetici, una vera e propria centrale elettrica con le sue diramazioni e ovviamente i suoi percorsi, i canali energetici chiamati "nadi". Ed è da qui che i malesseri si vanno ad evidenziare nel corpo fisico, a causa di blocchi del flusso energetico e problemi nella circolazione dell'energia... ci ammaliamo. Come quando c'è un guasto alla linea elettrica e restiamo senza luce in casa. Ma perché si creano queste disfunzioni energetiche? Perché oltre i due livelli fin qui esposti, vi è la vera essenza dell'essere umano: la coscienza. Intesa come la vera entità che siamo, l'essenza spirituale che ci contraddistingue ed lì che nascono i malesseri. Lo stress, le ansie, le paure, gli stati emotivi non piacevoli creano dei malfunzionamenti al flusso energetico, e questi a lungo andare portano l'evidenza di questo malessere della coscienza al corpo fisico generando la malattia. Chiaramente si può essere d'accordo o no su tutto questo, è un modo di vedere.
Premesso questo stato delle cose, cosa fanno le campane?
Le prime notizie su di loro risalgono all'epoca in cui il Budda inizia la sua missione sulla terra, in quegli anni dal Nepal, da cui sono originarie e dove ancora oggi vengono create, arrivano in India. Venivano usate dai monaci come piatti e come ciotole per l'elemosina e poi guarda un po' come strumenti terapeutici. Negli anni '50 a causa della diaspora dei tibetani dal loro paese a seguito dell'occupazione cinese, fanno il loro arrivo in occidente.
Ancora oggi vengono realizzate a mano, dalla fusione di sette metalli, i sette metalli legati ai sette pianeti, compresa la luna e legati ai sette chakra principali.
Ma come e perché dovrebbero essere terapeutiche? Innanzitutto perché la vibrazione che emettono è sulla stessa frequenza delle vibrazioni delle cellule umane, intervenendo così a livello fisico nel ripristinare l'originaria vibrazione ed eliminando scompensi. Parlando di frequenze è chiaro che si parla anche di energia ed ecco quindi che vanno ad agire sul campo energetico eliminando eventuali blocchi e ripristinando il fluire nei canali energetici.
Ovviamente emettono dei suoni, questi suoni hanno la frequenza principalmente di due tipi di onde: beta che vanno a creare rilassamento e benessere mentale, theta che sono le onde più profonde, usate quando si medita, le onde che ci permettono la correlazione con tutto il cosmo, con la coscienza universale. Così quindi lavorano al livello più profondo che accennavamo prima, andando a rimuovere, o almeno permettendoci di vedere, di prendere consapevolezza della vera causa originaria dei nostri malesseri. Non vanno chiaramente a sostituire i tradizionali metodi terapeutici, di qualsiasi tipo di medicina vogliamo intendere, ma mentre, a mio parere, i medicinali si focalizzano sul sintomo, le campane lavorano sulla causa.

Ho un dolore alla cervicale, prendo l'antinfiammatorio mi passa. Certo il sintomo, ma la causa? Perchè avevi quel dolore? Quale ne è la causa? Le campane, come altri metodi definiti olistici, possono aiutarci ad andare più a fondo, ad eliminare la causa perché non si presenti più il sintomo. Ancora oggi io stesso, che lavoro quotidianamente con loro, resto a volte sorpreso dai risultati che si riescono ad ottenere. Certo la più grande soddisfazione è quella di ricevere sinceri ringraziamenti e vedere un cambiamento positivo non solo sul piano fisico, ma anche mentale e spirituale di chi si sottopone ai trattamenti.


domenica 19 giugno 2016

Ed eccoci in estate

Ed eccoci ormai alle porte della stagione estiva. Da settembre, quando è nato ad oggi “a spasso con Budda” vi ha tenuto compagnia, spero in maniera piacevole e interessante. Si è parlato di buddismo, del Tibet, di meditazione. 
Ora con l’arrivo dell’estate per molte persone giustamente arriva il periodo del mare, delle uscite, del tirare un po’ più tardi la sera. Così anche il blog si concede una vacanza. 
Riprenderò a pubblicare post a settembre e già sono in programma diversi articoli che andranno ad affrontare qualche tema impegnativo del buddismo; si parlerà di vacuità, del Sé e della sua “esistenza”, torneremo ad affrontare meditazioni pertinenti a questi argomenti. 
Per ora quindi auguro a tutti voi un’estate serena, piacevole e, se ne avrete voglia, una piccola meditazione, magari all’aria aperta, potrà favorire il contatto con noi stessi e con l’intero universo di cui facciamo parte. 
Buone vavanze.



domenica 5 giugno 2016

La presa di Rifugio

Negli articoli fin qui pubblicati, ho esposto diversi argomenti correlati agli insegnamenti del Buddha, alla meditazione e a un po' di storia. Si è parlato quindi sia di teoria che di pratica; vorrei ora illustrare quello che può essere un momento molto particolare ed importante per chi segue la pratica del buddismo tibetano: "la presa di rifugio".
Come tutto nel buddismo è una scelta personale, quindi anche in questo caso si ha la piena decisionalità e di conseguenza la responsabilità di ciò che si è scelto.
Prima di vedere in cosa consiste "rifugiarsi" vediamo in cosa si cerca rifugio.
Ci si rifugia nei cosiddetti tre gioielli: il Buddha, il suo insegnamento il Dharma, la comunità dei credenti il Sangha. Tre gioielli perché racchiudono e rappresentano la ricchezza per l'essere umano durante il suo percorso per migliorarsi. Il Buddha chiaramente è il maestro, l'illuminato che ci ha consegnato l'insegnamento per raggiungere noi tutti l'illuminazione, la comunità di tutti i credenti, monaci e laici, rappresenta quell'unione di persone spinte verso la stessa meta da un unico intento.
Ci si rifugia quindi in questi gioielli, con una semplice cerimonia celebrata dal monaco che si è scelti, che può essere anche preso come proprio maestro, cioè la persona che riteniamo possa insegnarci a migliorare e a seguire il cammino, ma la scelta del maestro non è vincolante e i maestri si possono modificare nel tempo. Tornando alla cerimonia, spesso si svolge "in forma privata" si direbbe usando un termine formale, cioè maestro e rifugiante. Il monaco recita una serie di preghiere e formule, rigorosamente in tibetano, e al termine fa ripetere al discepolo per tre volte una formula di intento di presa di rifugio, tradotta più o meno risulterebbe: "prendo rifugio nel Buddha, nel Dharma, nel Sangha". Il maestro attribuisce anche un nome al praticante, composto da un nome sacro che discende dallo stesso nome del monaco e un nome attribuito in base alle qualità che il maestro vede in colui che sta prendendo rifugio. Un po' cognome e nome.
Fin qui abbiamo visto la parte più pratica e tecnica della presa di rifugio, ma cosa comporta questa scelta manco a dirlo è molto più profondo. Alla decisione di prendere rifugio ci si arriva, solitamente dopo anni di studio e pratica, non è proprio come un battesimo da neonati, ci si arriva, se ci si arriva, nel momento in cui emerge la consapevolezza di aver compreso che quell'insegnamento sia quello giusto per la nostra evoluzione. Si decide quindi di impegnarsi appieno nel suo sviluppo. Non a caso ho usato la parola impegnarsi, la presa di rifugio infatti comporta degli "impegni".
Innanzitutto una pratica quotidiana come quella di ripetere varie volte durante il giorno la formula della presa di rifugio, al mattino recitare una preghiera per il beneficio di tutti gli esseri senzienti ed alla sera dedicare tutti i meriti acquisiti, supponendo che se ne abbia qualcuno, ai tre gioielli per permetterci di arrivare all' illuminazione.
Fin qui sembrerebbe una pratica più che altro teorica con qualche piccolo esercizio da eseguire, ma per il buddismo non vi sembra troppo semplice? Già!
Prendere rifugio comporta soprattutto un'etica nel modo di vivere, significa aderire a dei comportamenti vicini a quelli dei voti laici. Innanzitutto ci si impegna in cinque punti di una condotta morale: non uccidere, e qui intendiamo qualsiasi essere senziente; non appropriarsi di cose non date, in pratica non rubare; non avere una condotta sessuale scorretta, in primo luogo per chi ha un o una partner non tradire, più alcune altre accortezze; non mentire; non bere alcolici.
Questi i punti principali della condotta, nel buddismo sappiamo che non ci sono ordini e comandamenti, si consiglia di seguire determinati comportamenti. Come abbiamo già visto, è tutto karma nostro.
Ai cinque punti illustrati si aggiunge poi di rispettare le immagini del Buddha, così come i testi sacri degli insegnamenti, rispettare tutti i componenti del Sangha come una grande famiglia, evitare di farsi "corrompere" da persone che vogliono deviarci dal nostro sentiero e non affidarsi ad insegnamenti diversi.
La presa di rifugio come dicevo è una scelta personale con una certa connotazione religiosa, sebbene con una pratica che, in fin dei conti, ci aiuta a ricordare e rinnovare quotidianamente gli impegni scelti.

Molti praticanti seguono il sentiero buddista per tutta la loro esistenza senza "prendere rifugio", altri lo fanno prima o dopo. Come sempre il buddismo nelle sue regole e nella sua libertà, ci ricorda che siamo noi, in prima persona, responsabili della nostra evoluzione personale.



domenica 22 maggio 2016

La Felicità

È passato qualche anno da quando incrociai il mio sentiero con quello di una bella anima, tutta colorata. Di colori vivaci, veri, che trasmettono tanta energia. Nel tempo siamo diventati amici, di quelle amicizie che senti sono nate chissà dove e quando e si ripropongono vita dopo vita. È nata poi una collaborazione, con un metodo di trattamenti olistici che abbiamo elaborato insieme, per tentare di essere utili a un po' di persone. Il suo nome è Giusy Rasile e ci dona oggi un suo bel pensiero su un concetto che dovrebbe essere il punto focale di ogni esistenza: la Felicità.
Buona lettura.

Prendo spunto per questo articolo partendo da una frase di Mariano pubblicata il ..09/12/2015  “lo scopo della pratica buddista è  di prodigarsi per permettere a tutti gli esseri senzienti di raggiungere la felicità”        
ed allora mi è venuta voglia di scrivere sulla felicità, semplicemente per come la vedo io.
Ovviamente non ho la pretesa di  proporre la formula magica per cambiare il mondo, e renderlo istantaneamente più felice, ma spero almeno di rendervi dubbiosi riguardo gli insegnamenti che dicono che la felicità sia difficile, se non impossibile da ottenere, o comunque non per tutti, altrimenti il mondo sarebbe migliore.
Io un tempo la pensavo proprio   così: che fosse difficile e non destinata a me,  finchè non ho scoperto che la felicità è una scelta che chiunque può fare, una decisione che cambia la vita. 
Non significa che ora la mia strada è sempre in discesa, ma solo che se sono in salita ne approfitto per fare i muscoli sotto sforzo!
Non è solo un concetto di pensiero positivo, ma una vera consapevolezza del potere che ogni essere possiede in quanto espressione della vita.
Che cos’è la felicità?
Cosa significa essere felici?
Io risponderei a questa domanda citando un cartone animato-romanzo  :“Pollyanna” ,che al di là di  discutibili forme di messaggi all’interno della trama, ha presentato a quelli della mia generazione “il gioco della felicità”. 
Cos’era il gioco della felicità? 
Era una sorta di “percezione selettiva della realtà” o meglio : Pollyanna vedeva solo il lato positivo in ogni cosa. 
Tralasciando l’aspetto patologico di una visione parzialmente realista, devo dire che per me è stato prezioso nei momenti più bui decidere di attivare una ricerca del positivo che ben si nascondeva in ogni apparente evento negativo.
E se un tempo lo vivevo come un gioco, ora ho scoperto che questa visione  può essere il senso stesso della vita.
Nel momento in cui riconosci la vita come un’insieme di esperienze atte a raggiungere consapevolezza ed evoluzione, non puoi che imparare, ringraziare e lasciare andare.
Non significa non star male o non permettersi il dolore, ma semplicemente riuscire a trovare il maestro che si cela dietro quella forma di esperienza.
Ecco per me la felicità è l’espressione di un atteggiamento verso la vita (dove verso significa pro, a favore di).

Cosa significa essere felici?
A qualcuno hanno insegnato che essere felici  è uno stato di appagamento che dipende da qualcosa al di fuori di sè .
Siamo abituati a pensare che  saremo felici quando avremo quella cosa o quando faremo quell’altra o quando quella persona si concederà a noi. Come se la felicità fosse una conseguenza.
Io non la vedo così, non sto a dilungarmi ora sul fatto che in realtà è il nostro stato d’animo a determinare la realtà che viviamo e non il contrario, ma mi limito a dire che siamo noi a scegliere quanto potere hanno gli eventi su di noi.
Un esempio banale: se una persona ha una cattiva opinione su di noi, lasciamo che ce l’abbia, non abbiamo necessariamente bisogno dell’approvazione di tutti e l’idea che una persona può essersi fatta di noi è solo la sua opinione.
Il problema nasce se noi crediamo di essere ciò che gli altri credono di noi.
Ognuno di noi  è dotato di talenti specifici, siamo qui per apprendere determinati tipi di lezioni, riceviamo una certa educazione e viviamo diversi tipi di esperienze, uniche per ognuno in base alla percezione personale. Poi arriva una persona esterna, con la sua mappa del mondo ed esprime un giudizio su di noi e noi invece di pensare che è solo la sua visione ci arrabbiamo o “non siamo felici” perché lui non vede il mondo come lo percepiamo noi!
Nel momento in cui abbandoniamo il bisogno di avere il controllo su ogni cosa, ci prendiamo il diritto e riconosciamo agli altri il diritto di esprimersi e possiamo accettare che le cose accadano perchè  ogni cosa ha  sempre un motivo di esistere.
E qui la domanda sorgerebbe spontanea: Quindi la felicità è una questione di fede?
Anche, ma non solo, è un non giudizio, è umiltà, è gioia,è soprattutto libertà.
La libertà di lasciare che le cose esistano e la libertà di scegliere quali parti della realtà vogliamo vivere.
E quando non posso scegliere?
 I saggi monaci buddisti dicono: “ è più facile mettere un paio di scarpe che coprire il mondo di tappeti”.. se non possiamo modificare la realtà possiamo cambiare il nostro modo di percepirla. 
C’è sempre una soluzione anche se non sempre è quella che vorremmo noi. Non siamo abituati a chiederci qual è l’utilità evolutiva di ciò che viviamo, ma guardiamo le cose attraverso le aspettative e se il mondo non ci dà ciò che le corrisponde allora noi non possiamo essere felici!
Sono esempi estremi, però è importante chiedersi se siamo proprio fuori da questi meccanismi..
Non possiamo decidere di essere felici solo se qualcuno fa della sua vita ciò che noi vogliamo.
Vorremmo evitare certe scelte per paura di soffrire non pensando che stiamo soffrendo lo stesso perché nel non scegliere stiamo scegliendo, scusate il gioco di parole!
Tra i vari strumenti di supporto che uso c’è Aura-Soma® un sistema che si presenta in tante bottigliette colorate, la maggior parte sono bicolore e sono tutte diverse tra loro. 
Amo fare un esempio specifico quando sono davanti al set delle bottigliette: chiedo di guardare tutte le bottiglie in cui c’è un colore , ad esempio l’arancione,  poi chiedo loro di distogliere lo sguardo dalle bottiglie e di dirmi in quante bottiglie c’era il verde ad esempio.. ed ovviamente arriva l’imbarazzo.  È semplice a quel punto far notare come in realtà il set è composto da almeno 15 colori in diverse tonalità ma che noi della realtà percepiamo  solo ciò che scegliamo di guardare…
Quindi la felicità alla fine potremmo dire che è il modo in cui possiamo guardare il mondo.
O almeno questo è ciò che io scelgo di vedere, e mentre continuo ad accogliere nella mia vita le prove che servono  a superare i limiti che io stessa e l’esperienze mi hanno creato, accolgo sempre la forma in cui si presentano le prove  senza mai rinunciare al mio diritto alla felicità!


domenica 8 maggio 2016

Politeismo, monoteismo, buddismo


Durante le conversazioni riguardanti il buddismo, spesso viene fuori l'argomentazione se il buddismo sia oppure no una religione. Definire con certezza il concetto di religione potrebbe non essere facile, vediamo però quali sono alcune caratteristiche delle religioni o dei credi e se e come il buddismo si differenzia o si accomuna ad essi.
L'essere umano ha dal suo esordio su questo pianeta, sempre cercato "al di là", una necessità spirituale sorta spontaneamente o forse insita "geneticamente". Le prime testimonianze di culti, ci riportano al culto dei morti già sviluppato dai primi uomini a delle forme di adorazione verso fenomeni naturali e pianeti, come il sole e la luna. L'uomo quindi inizia a comprendere che al di fuori della propria esistenza possa esserci dell'altro. Si inizia poi a dare dei nomi a queste presenze che diventano così divinità, basti pensare a Ra, il dio sole degli Egizi, oppure a Thor, il tuono delle popolazioni nordiche qualche tempo dopo. In questa fase quindi molte divinità sono associate ad elementi naturali o da essi derivano. Nel corso dei millenni poi, vanno strutturandosi i credi che diventano vere religioni. Con religione mi sento di definire un credo strutturato con delle pratiche e una comunità clericale, quindi vediamo che qualche migliaio di anni fa, sopratutto in quella parte del mondo che è più pertinente ai nostri argomenti, cioè nella zona dell'attuale India, vengono fuori tradizioni come la vedica e poi l'Induismo. Ci troviamo quindi davanti a religioni che riconoscono al di sopra dell'essere umano delle entità "sovrannaturali" che più o meno hanno dei poteri sull'umanità stessa e sul pianeta terra. Stessa evoluzione la troviamo in civiltà come quella greca e successivamente romana, dopo essere passati per le religioni del bacino medio orientale. Fin qui abbiamo visto che l'uomo si affida, rispetta, a volte con timore, alcune figure esterne ad esso, quindi un politeismo strutturato. 
La più grande svolta nelle forme di credo dell'umanità la ritroviamo come è chiaro con l'avvento dei profeti che iniziano a parlare dell'esistenza di un solo Dio, al di sopra di tutto e creatore di tutto. Il protagonista geografico è sempre il bacino medio orientale dove sorgono l'ebraismo e successivamente cristianesimo e islamismo. 
Un'origine alquanto comune, con profeti che, successivamente, verranno acquisiti da una o dall'altra religione, ma che professavano tutti lo stesso amore verso il prossimo e il rispetto per un dio amorevole e compassionevole. Nascono quindi le grandi religioni monoteistiche, che danno al credo e alla religiosità dell'essere umano una struttura maggiormente organizzata, con un clero, regole e delle pratiche da seguire. Chiaro che, nel corso dei millenni, si siano modificate ma resta comunque una salda base sulla quale sono fondate e che le hanno portate ad essere le religioni che maggiormente hanno influito sul corso dell'umanità.
Ma in tutto ciò come si colloca l'insegnamento del Buddha?
Storicamente il Buddha appare prima dell'avvento del monoteismo e dopo che si erano ben strutturate le religioni politeistiche, portando però una vera rivoluzione prospettica.
Pone infatti, il Buddha, l'essere umano al centro di tutto. Non più quindi entità esterne, ma l'uomo che decide e gestisce la propria esistenza.
Finora infatti, ma poi anche successivamente, l'essere umano era e sarà considerato in una posizione di devozione e inferiorità rispetto a chi sta sopra di lui, agli esseri spirituali. Ma la grandezza dell'insegnamento del Buddha è proprio nel sovvertire questa visione, così come si presenta lui a coloro che lo ascoltavano e poi lo seguiranno. È l'essere umano l'essere spirituale, il Buddha ci dice di non essere un dio o un essere spirituale diverso da noi, siamo noi, esseri umani ad essere in realtà spirito, uno spirito che è un tutt'uno con l'universo, che periodicamente e temporaneamente si trova in forma corporea. Uno spirito in continua evoluzione e che, proprio per proseguire nella sua crescita nasce per imparare. Il Buddha quindi sovverte come dicevo prima, il modo di vedere ma anche di esistere. Ci consegna con i suoi insegnamenti il metodo per la nostra evoluzione spirituale, un metodo fatto soprattutto di comportamenti ma anche di una grande introspezione, in quanto, facendo noi parte di un sapere, di una coscienza universale, è soprattutto attraverso una buona pratica introspettiva che possiamo avvicinarci a comprendere la realtà di tutti i fenomeni.
Il Buddha crea anche la prima comunità di seguaci, il Sangha, alla quale "consiglia" delle regole da seguire, nel buddismo non ci sono imposizioni né tantomeno il senso del peccato. Queste regole le abbiamo già viste quando abbiamo parlato delle azioni virtuose. Forma anche un clero dove si rispettano determinati voti ma dove, tutti, sono semplici monaci, così come ama definire se stesso S.S. il Dalai Lama. Nel corso dei secoli sono nate poi delle funzioni, paragonabili alle funzioni religiose di altre confessioni, diverse in alcuni casi tra le varie scuole. 
A conclusione di questa conversazione credo si possa quindi definire che il buddismo possa essere annoverato tra le religioni per quanto concerne la parte più strettamente ritualistica e regolamentata, resta però, a mio parere, così come mi piace definirlo quando mi si chiede cos'è, un metodo. Un metodo per provare a capire la vera entità di tutti i fenomeni, partendo da chi o cosa siamo in questo corpo in cui ci troviamo, provare a capire cosa facciamo qui, che scopo possa avere esserci. Provare a realizzare, come ci ha consigliato il Buddha una evoluzione spirituale che ci permetta, in quanto spirito noi stessi, di raggiungere l'illuminazione, la distinzione della vera essenza della realtà e di conseguenza quella felicità reale ed eterna e non effimera come troppe volte cerchiamo o crediamo di raggiungere.

domenica 17 aprile 2016

Interdipendenza, compassione, motivazione



Oggi vorrei riunire, in questo scritto, alcuni termini di uso comune nella pratica buddista che, a mio parere sono molto vicini. Oggigiorno si parla spesso di globalizzazione, di scambio, di condivisione. La tecnologia ci dà la possibilità di relazionarci, in pochi attimi con l'altro capo del pianeta. Ma tutto ciò spesso viene fatto con superficialità.
Tanti anni fa il buddismo parlava di interdipendenza intendendo che tutti gli esseri, su questo pianeta hanno, in un modo o in un altro un legame. Un po' come tutti gli organi del corpo sono tra loro interconnessi, così tutti noi siamo in un qualche modo legati a tutti gli altri. In questo momento ad esempio, leggendo queste righe, si è interconnessi con chi le ha scritte, ma cosa state usando per leggere? Un Pc o un tablet o comunque un apparato da qualcuno costruito, da altri ideato, magari è attaccato alla presa elettrica, ma la corrente non vi arriva da sola, qualcuno ha posizionato i cavi, ha costruito gli impianti. Come vedete siamo tutti interdipendenti. Senza la "collaborazione" di tanti altri, non postremmo fare tante cose. Pensiamo al semplice gesto di bere un bicchiere d'acqua. Possiamo farlo perchè altri hanno creato le condutture, altri, prima, le hanno ideate. Noi stessi creiamo qualcosa per gli altri, con le nostre azioni, con il nostro lavoro, contribuendo a realizzare questo meraviglioso tessuto di interdipendenza.
Visto che siamo tutti interdipendenti, converrebbe quindi sviluppare una qualità che ci porterebbe a vivere e far vivere meglio: la compassione.
Ho già accennato a questo termine, ma cosa si intende, nel buddismo, per compassione? In occidente e nel cristianesimo spesso è associato ad una sorta di "provare pena" per quella che può essere la situazione disagiata o difficoltosa di qualcuno. Ad esempio si prova compassione per un povero visto in strada o per un malato.
Nel buddismo, neanche a dirlo, è un concetto più impegnativo. Non si tratta di un sentimento che proviamo, quanto di una qualità che dobbiamo sviluppare, la qualità di sentire come nostre le sofferenze degli altri, e desiderare che tutti gli esseri senzienti siano liberi da ogni sofferenza. Quindi anziché limitarsi ad un "poverino come soffre", far propria la sofferenza altrui e desiderare la felicità attraverso la cessazione della sofferenza di tutti.
Se andate a dare un'occhiata al post sulla meditazione con visualizzazione vedrete che avevo scritto di un paio di esercizi per sviluppare questa qualità. Inoltre, lo sa bene chi segue il buddismo tibetano, nelle pratiche quotidiane ci sono le preghiere e le motivazioni perché tutti gli esseri senzienti siano liberi dalla sofferenza. 
Essendo tutti interdipendenti, quale cosa migliore che nessuno provi più sofferenza?
Per arrivare a questo, ci sarebbe bisogno, in questa pratica, ma un po' in tante cose che facciamo, della giusta motivazione. Anche questo è un termine molto in uso nella moderna società, soprattutto in ambiti lavorativi. Esistono i "motivatori", si tende a  motivare i lavoratori affinché facciano il loro lavoro producendo di più. 
Nel buddismo la motivazione da sviluppare ed applicare è rivolta alle proprie azioni ed intenzioni. Alzarsi al mattino motivati ad apportare benefici o almeno a non arrecare danno ad altri. Motivati a vivere con consapevolezza ogni attimo, e sviluppare quella compassione che ci permetterà di vivere appieno la nostra esistenza. Essere motivati vuol dire avere interesse per quello che facciamo, avere le giusta motivazione permette anche di svolgere meglio ed essere più soddisfatti delle proprie azioni. Impegnarsi quindi ad applicare la giusta motivazione quando si svolge una qualsiasi azione, anche quando ci sediamo sul nostro cuscino a meditare è importante avere la giusta motivazione, così quando recitiamo dei mantra o, in altre religioni, preghiamo. Se è vero che, essendo fatti di energia ed emanando energia influenziamo ciò che ci sta intorno, con le giuste motivazioni, in ogni gesto, possiamo davvero creare una realtà migliore.
Proviamo quindi a ricordarci che tutti su questo pianeta siamo interdipendenti, tutti in un modo o in un altro siamo collegati, impariamo a sviluppare la compassione, verso noi e gli altri. Alziamoci al mattino con le giuste motivazioni per creare una realtà migliore per noi stessi e per tutti gli esseri senzienti.

domenica 3 aprile 2016

Meditazione analitica



Parliamo di nuovo di meditazione, illustrando un metodo che, per molti versi è uno dei più interessanti e probabilmente "proficuo". È anche ritenuto da molti monaci uno dei più utili. 
Una parte fondamentale della pratica buddista, o comunque del cercare di essere buddista, è lo studio. Studiare, approfondire gli insegnamenti del Buddha e i testi scritti successivamente che illustrano e spiegano quanto ci è stato trasmesso. Studiare è quindi importante ma nel buddismo si consiglia un passetto in più, provare a capire a fondo, con un termine prettamente buddista "realizzare" cioè comprendere con tutto il proprio essere. Per fare ciò torna utile la meditazione analitica.
Dalla definizione è facile intuire che appunto si parla di analizzare mediante la pratica meditativa. 
Mettiamo che abbiamo studiato un determinato argomento, ad esempio il karma di cui abbiamo già parlato. Pensiamo che sia il caso di approfondirne il significato e così ci sediamo sul nostro cuscino da meditazione. 
Dopo la parte di rilassamento e concentrazione che ormai maneggiamo con scioltezza visto che già abbiamo sperimentato varie volte, sin dal primo post sulla meditazione (vero?), portiamo la mente alla parola karma. Fermiamoci su di essa e..... ragionamoci su. Ma non con la mente ordinaria e razionale, ma con quella con la M maiuscola. Facciamo che ciò che abbiamo letto e studiato venga elaborato ad un livello più profondo. Lasciamo che la Mente possa attingere sia da ciò che abbiamo letto sia da qualcosa di più profondo, un sapere che non credevamo di avere, conoscenze che forse derivano da esperienze passate, da altre vite o forse da un sapere innato e primordiale. 
La meditazione analitica richiede un po' di esperienza per essere praticata correttamente, come tutto del resto. Importante è focalizzarsi su un argomento o meglio su una parola che lo contraddistigue. Ci mettiamo lì, focalizziamo la mente sull'argomento e.... aspettiamo. Ci godiamo la nostra tranquillità, sentiamo la nostra respirazione e semplicemente aspettiamo, aspettiamo di poter conoscere ad un livello più alto. Sicuramente arriveranno tanti pensieri estranei, come sempre quando proviamo a tenere a bada la nostra piccola mente, come al solito lasciamoli svanire da soli, non dandogli importanza. Accadrà anche che tenderemo a ragionare sull'argomento oggetto della seduta, va bene ma cerchiamo di attingere, di far arrivare le risposte dal nostro sapere profondo, sconosciuto ma esistente.
Potrebbe anche capitare, a volte, e qui parlo per esperienza diretta, che benchè ci si è posti un argomento da analizzare, arrivi qualche chiarimento su ben altro. Ciò va benisssimo. Significa che in quel momento avevamo bisogno di quelle risposte. Meditare è entrare in contatto con la nostra essenza più profonda, se quindi arriva una risposta, una conoscenza che non ci aspettavamo, va bene. Vuol dire che era di quello che avevamo bisogno in quel momento.
Ho provato qui a spiegare questa tecnica meditativa, mi rendo conto che possa non essere facile da applicare, come non è facile da spiegare, il mio invito è di provare e se qualcuno di voi ha voglia di fare qualche domanda, sono qui.
Il suggerimento che mi sento di dare è quello che diede a me un monaco: "siediti, concentra la tua mente sulla parola (intendendo l'argomento) e aspetta".
Buona meditazione.

domenica 20 marzo 2016

La storia continua



Nel primo post in cui scrivevo un po’ della storia del Buddha, ho cercato di dare un’idea di come erano andate le cose a quei tempi e da dove era iniziato tutto ciò.
Qualcuno mi disse che ero stato un po’ succinto, ma era già allora mia intenzione non dilungarmi né tantomeno annoiarvi con lunghi racconti. Anche in questo post traccerò per sommi capi ciò che accadde dopo che il Buddha lasciò il corpo. Come già ho detto, chi di voi vorrà approfondire troverà certo fonti più dettagliate di me.
Un giorno, quindi, il Buddha lascia il corpo e l’eredità dei suoi insegnamenti. A quel punto la prima comunità che si era creata, fra i quali spiccava Ananda, cugino di Shakyamuni, si riunisce e inizia il gran lavoro di scrittura degli insegnamenti. Il Buddha infatti aveva trasmesso tutto in forma orale. Ne vengono fuori circa 2500 sutra, che contemplano tutto ciò che era stato trasmesso dal Maestro. 
Come succederà anni dopo con il cristianesimo, il buddhismo comincia a “viaggiare” e anche a modificarsi dalle pratiche originali. Vediamo infatti che si sposta verso sud est e verso oriente, ma anche verso nord, ricordiamo che siamo in India.
La prima grande modificazione che troviamo è la distinzione tra Mahayana e Hynaiana. Il primo, che tradotto significa “Grande Veicolo” si spande per gran parte del mondo dando poi origine anche ad altre scuole, l’altro, che tradotto sarebbe “Piccolo Veicolo”, si concentra soprattutto nella zona del sud est asiatico. Ma quale è la grande differenza tra i due? Entrambi perseguono chiaramente la felicità dell’illuminazione, ma mentre il primo persegue quest’obiettivo per poi portare la felicità a tutti gli esseri senzienti, il secondo lo persegue per il praticante stesso. Si dice infatti che il buddismo Hynaiana è compreso nel Mahayana, ma non viceversa, bisogna infatti raggiungere alti stadi di realizzazione, per poter essere d'aiuto agli altri. Il Mahayana quindi viaggia e si sviluppa, sia nell’India stessa grazie a filosofi come Nagarjuna e Shantideva, che in Cina, Giappone e Tibet. Grandi trattati sono stati scritti nei secoli, da “La preziosa Ghirlanda” di Nagarjuna al “La via del Bodhisattva” di Shantideva, che hanno permesso al grande insegnamento di giungere fino a noi in termini sempre attuali. Verso oriente, in Giappone, nasce l’altra grande e famosa scuola, la scuola Zen e, nei secoli successivi, le varie scuole che si rifanno alle interpretazioni ed insegnamenti di Nichiren Daishonin. Mentre a nord, in Tibet, si concentra quella che ad oggi è, forse, la tradizione buddista più conosciuta.  
Nonostante questo suo viaggiare, il buddismo per molti secoli conosce comunque un forte declino di popolarità, mentre il Tibet restava arroccato sui suoi altopiani a custodire gli insegnamenti e sviluppare la comunità monastica, in altri paesi come la Cina e il Giappone si trovava a confrontarsi con le religioni di Stato o comunque storiche, come Confucianesimo e Shintoismo. In Thailandia e dintorni si sviluppava ma restava confinato in zona.
Finora però si può notare che la direzione presa era quella orientale, come è quindi che qui in occidente stiamo scrivendo e leggendo in questo istante di buddismo?
Dobbiamo aspettare le prime grandi esplorazioni verso oriente che hanno al loro ritorno portato notizie da quei luoghi, perché il buddismo faccia la sua comparsa in occidente. 
Degna di nota nella prima metà del 1700 la spedizione di Padre Orazio della Penna, che rimasto in Tibet per lungo tempo, appresa la lingua nel monastero di Sera, ha poi creato un legame di scambio, forse il primo reale scambio interreligioso tra il buddismo tibetano e il cristianesimo cattolico. Fino a portare nella suggestiva cornice di Pennabilli, in Romagna, un angolo di Tibet. E’ comunque in tempi relativamente recenti che il buddismo si propaga in occidente, vuoi per “ le mode” derivate dal periodo del ’68, vuoi perché in tempi recenti per molte persone nasce il desiderio di incontrare altre spiritualità. 
È purtroppo anche grazie ad eventi drammatici che il buddismo si diffonde in occidente, infatti dopo l’occupazione del Tibet da parte della Cina, all'inizio degli anni cinquanta inizia la diaspora dei monaci per sfuggire alle persecuzioni atroci degli occupanti. Così quella che doveva essere una chiusura del paese e dei suoi abitanti, soprattutto delle comunità monastiche, ha portato ad una maggiore divulgazione del buddismo.
Mi auguro di non avervi annoiato troppo, la storia del buddismo è lunga ed affascinante. 
Come predetto dal Buddha, i suoi insegnamenti sarebbero stati diversi a seconda dei luoghi, delle culture e delle persone che li avrebbero ascoltati, quindi a mio parere è più che naturale che nel corso dei secoli, e nei diversi paesi il buddismo abbia assunto connotazioni differenti. Pensiamo che è soprattutto uno stile di vita, con connotazioni religiose, certo, e che quindi è giusto viverlo e sentirlo nel modo che ad ognuno appare più consono.

domenica 6 marzo 2016

Uno storico legame tra Italia e Tibet



"Andando a spasso con Buddha, si incontrano altri viandanti impegnati sui loro sentieri. Tempo fa ebbi occasione di conoscere una persona che sta dedicando la sua esistenza a far conoscere il Tibet, il suo popolo, la sua cultura ed i problemi dovuti all'occupazione da parte dell Cina. È un viaggiatore, scrittore, musicista ed è il presidente dell'associazione Italia-Tibet (www.italiatibet.org.)

Il suo nome è Claudio Cardelli ed ha scritto questo articolo per noi di aspassoconbudda.


Buona lettura. "


L’Associazione Italia Tibet

Un po’ di storia

In una fredda giornata dell’autunno 1987 sono a casa di Fosco Maraini a Firenze.
Il gigantesco camino ospita alcuni sterpi e pigne del parco che, scoppiettando, emettono un gradevole tepore, un fumo denso, un aroma penetrante di resina. Il professore appoggia su un tavolinetto a lato della sua poltrona la Lettera 22 con cui ha scritto ogni riga fino agli ultimi giorni della sua vita, prende un tè da un vassoio che ci ha appena portato sua moglie Mieko e dopo il primo sorso appena accennato dice..: “Vedi, noi tutti che amiamo il Tibet, la sua cultura, la sua gente straordinaria, dovremmo creare una associazione organizzata, con tanto di statuto, con una sede, un notiziario…Dovremmo aiutare i tibetani ad uscire da questa morsa repressiva, da questa cortina di piombo invalicabile, da questo muro di silenzio e indifferenza…” “E magari tu saresti il presidente!” attacco io. “No, no, che presidente…Io potrei essere un consulente, uno che vi aiuta, ma la gestione deve essere in mano a voi giovani!”

Noi giovani! Già. Sembra ieri che eravamo i “noi giovani” e ci siamo ritrovati ora, qui e in un battibaleno in cui è successo tanto, e allo stesso tempo niente, alla vigilia del 55° anniversario dell’insurrezione di Lhasa.
Certo da allora la barba è un po’ imbiancata e il presidente di quell’associazione Italia-Tibet, vagheggiata nel lontano pomeriggio toscano, e concretizzata poi, nel 1988, assieme a Piero Verni, Vicky Sevegnani, Carmen Leccardi e un pugno di amici, sono oggi io.
Prima di me Piero Verni.. (14 anni) poi Gunther Cologna per 6 anni.

Quasi 28 anni anni per la Causa, dunque, “The Sacred Cause of Tibet”. 

Avevo incontrato per la prima volta dei tibetani a Delhi negli anni 70. Erano fuggiti dal Tibet e dalla Rivoluzione Culturale che era appena finita. Raccontavano e piangevano. Singhiozzavano… Fu un colpo al cuore. Capii quanta sofferenza e ingiustizia c’era in quella terribile vicenda e rimasi con la certezza che non avrei più abbandonato l’idea di aiutarli come potevo.
Iniziai subito a viaggiare nelle zone di cultura tibetana dell’India e nel 1982 incontrai per la prima volta il Dalai Lama. A Milano al circolo della stampa.
Aveva 47 anni. Veniva da Parigi, Era terribilmente raffreddato e alla conferenza stampa che avevamo organizzato non era presente nessun giornalista. Ho raccontato fino alla nausea il fatto che Piero Verni mi prego di salire da Rimini con un po’ di gente per non far trovare la sala vuota a Sua Santità. Incredibile! Oggi ogni volta che arriva si scatena una ridda di richieste le più balzane e surreali, mentre le testate fanno a gara per avere un’intervista…
Guardai quell’uomo da vicino per la prima volta. Mi strinse le mani. Ci parlò della situazione del Tibet. Sorrideva ma amaramente. Mi sentii legato a lui e al destino della sua gente. Riprovai quel brivido amaro che sentii a Delhi parecchi anni prima. Il Tibet ed io eravamo legati. Indissolubilmente.
 La proposta di Strasburgo, il piano di pace in 5 punti di Washington e Italia Tibet erano ancora lontani. E il Tibet era “off limits”

Da allora ho incontrato il Dalai Lama tantissime volte; è diventato cittadino onorario di Rimini ed è venuto sin qui ben tre volte, addirittura fino alla mia vallata, la Valmarecchia, per rendere omaggio al frate cappuccino Orazio Olivieri da Pennabilli che fu nunzio a Lhasa nel XVIII sec e scrisse il primo dizionario italiano-tibetano.


Vorrei dunque parlare in queste poche righe della nostra Associazione a quelli che non la conoscono o che sono arrivati dopo.. 

Il ritorno dal primo viaggio in Tibet del 1987 fu determinante per tutti noi nel riconoscere la necessità di fondare in Italia un vero “Tibet Support Group”: gli scontri di settembre, la legge marziale, le repressioni, le testimonianze dirette, nostre ma anche di tanti altri viaggiatori e appassionati che da anni speravano sia nell’apertura al turismo del Tetto del Mondo sia nell’apertura di Pechino verso una maggiore libertà e rispetto dei diritti dei tibetani, il cui paese era stato invaso e occupato dalla Cina nel 1950.
L’Associazione Italia-Tibet nacque con uno statuto ben preciso che riconosceva il Dalai Lama come rappresentante legittimo del popolo e della nazione tibetana e sosteneva il suo piano di pace in 5 punti presentato a Washington e perfezionato l’anno successivo a Strasburgo. Piano di pace che, di fatto, auspicava per il Tibet una forma di autonomia “genuina” e lasciava a Pechino la gestione della politica estera e della difesa rinunciando di fatto per la prima volta all’idea di indipendenza.
Da allora il Dalai Lama ha viaggiato il globo terracqueo in lungo e in ripetendo fino a perdere fiato la sua rinuncia all’indipendenza (comunque diritto morale e giuridico di un paese illegalmente occupato) e nel chiedere per la sua gente almeno il rispetto della cultura, del diritto alla libertà religiosa, della lingua, delle tradizioni all’interno della Repubblica Popolare Cinese. Rinuncia non poco dolorosa per le migliaia di tibetani che avevano perso congiunti, uccisi o imprigionati dalla polizia cinese e dalle guardie rosse o che erano fuggiti in India alla ricerca di una nuova esistenza, lontani dalla patria ma vicini al loro riferimento spirituale e politico.
Ciononostante Pechino ha continuato con protervia ad accusare il Dalai Lama di essere un separatista sotto mentite spoglie, di parlare, secondo un linguaggio caro alla rivoluzione culturale, “con lingua biforcuta”, di essere sostenuto e strumentalizzato dagli imperialisti occidentali.
Oggi, 2016, la situazione appare senza sbocchi visto anche il fallimento totale dei “negoziati” tra tibetani e cinesi, andati avanti per sei anni senza un progresso concreto: di fatto, il dialogo è stato inesistente e si è tradotto in una serie d’insulti e aggressioni da parte cinese che ricordano molto la famosa storiella del “Lupo e dell’Agnello”.
In questi ventisei anni di vita l’Associazione Italia-Tibet si è mossa sempre sul doppio fronte politico e umanitario. Attraverso un’instancabile attività di divulgazione, con seminari, mostre, meeting, rassegne, conferenze, eventi, l’Associazione ha contribuito in maniera decisiva alla presa di coscienza, nel nostro paese, del problema del Tibet da parte di un pubblico sempre più vasto.
Sul fronte umanitario la nostra Associazione ha svolto un ruolo di primo ordine nel contribuire a finanziare lo sviluppo dei TCV (Tibetan Children Villages), l’istituzione dei tibetani in esilio in India alla quale è deputata la salvaguardia della cultura  e delle tradizioni del Paese delle Nevi.

Permettetemi in questa sede di ricordare alcune delle più importanti iniziative di cui siamo stati promotori, organizzatori e protagonisti. Lontane sono ormai negli anni le nostre storiche “incursioni” al Festival dei Teatri di Santarcangelo con la compagnia fantoccio del teatro tibetano in tour per conto di Pechino, o alle mostre sui “tesori” del Tibet ostentati con arroganza dai cinesi, come un ladro che organizza una mostra sulla propria refurtiva, alla Rinascente a Milano.. Mentre la nostra presenza alle manifestazioni del 10 marzo da Dharamsala a Roma a Parigi, Bruxelles, Londra Ginevra sono state costanti. Sul fronte umanitario e di aiuto concreto ai rifugiati tibetani nel 2000, grazie alla mia sollecitazione e a quella di Stefano Dallari, presidente della Casa del Tibet di Votigno di Canossa e allora nostro consigliere, Luciano Pavarotti accettò di dedicare il suo encomiabile Pavarotti&Friends ai bambini tibetani e cambogiani. Con i fondi del Pavarotti&Friends (oltre un milione di dollari…) fu costruita un’importantissima scuola professionale a Mussoorie, nello stato indiano dell’Uttar Pradesh.
Alcuni anni or sono abbiamo “adottato” la piccola scuola di Sumdho-Henle, sperduta nel Ladakh, vicino al lago Tsomoriri, e da allora, grazie a numerose iniziative, abbiamo raccolto diversi fondi: voglio ricordare “In Moto per il Tibet”, un motoraduno in alta Val Marecchia nel 2006, gli spettacoli “Lo” e “Blood Brothers” a Forlì, le mostre di pittura,  il Cardiolab 2007-2008 e 2009, con un gruppo di medici riminesi che hanno viitato oltre 3000 tibetani, concerti e donazioni di privati, enti e società.
Indimenticabile nel 2002 il Castagneto Day, gemellaggio culturale tra le tradizioni toscane e quelle di culture a rischio sul pianeta promosso dalla Global World Foundation di Franco Malenotti, che ospitò il Tibet e la stessa Jetsun Pema, sorella del Dalai Lama e allora presidente dei Tibetan Children Villages, per una cospicua raccolta fondi per il TCV di Leh.
Questi fondi furono recapitati in loco da Emerson Gattafoni e dallo scrivente realizzando anche un documentario per la Rai, “Eastern Road”, con un ampio capitolo dedicato ai TCV.  Nel 2011 è in programma un altro grande progetto con Emerson e la ONLUS di Bergamo Africa 3000.
Ed è proprio parlando di Tibetan Children Villages, che, per concludere, vorrei condividere con voi alcune righe che scrissi tempo fa ricordando il mio incontro con “L’Infanzia del Tibet”.
Fu alla fine degli anni ’70, in Ladakh, in una località nei pressi di Leh chiamata Choglamshar.
Non avevo le idee molto chiare sulla situazione dei rifugiati tibetani e facevo fatica a capire la differenza tra loro e i locali ladaki. Quel viaggio, il primo in un territorio a cultura tibetana, costituì una delle mie prime “folgorazioni” giovanili per il popolo del Tibet e la sua triste vicenda storica, politica e umana.
Quando, sulla direzione di Hemis Gompa, notai in prossimità della strada una serie di case basse in stile tibetano e con tante bandierine che garrivano alla brezza, ne fui molto colpito e mi resi conto che si trattava di un insediamento particolare, organizzato. Un villaggio? Un college? L’autista del bus disse semplicemente “TCV school…” Mi feci spiegare il significato della sigla e lo pregai di fermarsi subito. A piedi salii col fiatone dei 3700 metri lungo la strada fiancheggiata da un alto muro fino all’ingresso principale. Giovani voci lontane provenivano da casupole basse con le tipiche finestre bordate di nero. I “tarchò” sugli angoli di ogni edificio si agitavano al vento. Proseguii, curioso ed eccitato.
Si udivano ora canti perfettamente intonati e in un cortile centinaia di bambini di diverse età sembravano in piena ricreazione. Mi venne incontro una ragazza, una maestra, con un sorriso indicibile. Con un leggero inchino ci invitò ad accomodarci: tashi delek!
Avevo la mia Nikon F nella borsa e non vedevo l’ora di aggirarmi tra quei volti e quei sorrisi ma prima volli, e dovetti, ascoltare la storia del Tibetan Children Villages.
La ragazza mi parlò della fuga dal Tibet nel 1959 e dell’arrivo nell’umida, calda e intricata foresta dell’Arunachal Pradesh. Mi parlò dei cinesi e delle repressioni sanguinose, della fatica e delle morti lungo il tragitto. Congelamenti, amputazioni, infezioni. I tibetani, abituati alle grandi altezze e all’aria secca dell’altipiano, nel clima caldo umido del sub continente indiano si ammalavano e morivano come mosche Mi disse poi come il governo dell’India avesse assegnato ai profughi diversi insediamenti; alcuni erano ex campi di prigionia inglesi nell’ Himachal,  altri lande desertiche nel Karnataka a sud dell’India

I tibetani non avevano più nulla se non quello che erano riusciti a portare con sé e, come primo impiego, lavorarono come operai alla costruzione delle strade himalayane. Fino all’indipendenza dell’India, in tutta la catena dell’Himalaya non esistevano strade carrozzabili: i duemila chilometri di barriera invalicabile erano attraversati solo da antiche carovaniere che si arrampicavano su arditi sentieri fino a oltre 5000 metri di altezza. Il governo dell’India iniziò, negli anni ’60, a realizzare le prime vertiginose strade che si inerpicavano su per i valichi del Rothang, dello  Zoji la, a occidente, e del Natu La, a oriente. Qui migliaia di tibetani con le mani, martelli e scalpelli, spaccavano pietre e disegnavano sulle montagne quelle che da lontano sembravano solo piccole scalfitture ma che erano, di fatto, le prime vie di comunicazione percorribili da mezzi motorizzati.
Erano famiglie intere migrate su quelle ostili pendici. Gli uomini e le donne lavoravano tutto il giorno ma poco lontano dal cantiere si potevano scorgere delle ampie tende rimediate alla meglio sotto le quali stavano decine di bambini a naso all’insù intenti ad ascoltare le parole di una giovane. Qualcuno aveva delle piccole lavagne. Altri addirittura dei piccoli quaderni, regalo di qualche personaggio locale. Era la nascita del Tibetan Children Villages. Fu l’allora giovanissima Jetsun Pema, sorella di Sua Santità il Dalai Lama, a iniziare l’organizzazione delle scuole dei piccoli profughi.
“Se perderemo la nostra cultura perderemo tutto”, disse a Pema il Dalai Lama. “La prima cosa che dobbiamo organizzare sono delle scuole per i nostri giovani”.

Le poche ore in quel TCV rimangono indelebili nella mia memoria. Il villaggio era stato costruito da poco e ospitava qualche centinaio di bambini, oggi arrivati a oltre 2000. Avevano bisogno di diverse cose e tutte essenziali, ma la dignità e la determinazione di quelle ragazze insegnanti dette anche “mamme” e gli sguardi vivissimi, intelligenti e sereni di quel piccolo popolo disperso al di là del suo confine naturale himalayano, facevano capire che l’essenza del loro obiettivo sarebbe stato raggiunto contro qualsiasi avversità. Tornai al TCV di Leh diverse volte da allora ed ebbi modo di fare amicizia con la stessa signora Jetsun Pema. Vorrei lasciare a una delle sue interviste la descrizione e il messaggio che proviene dal Children Villages.
Jetsun Pema è nata a Lhasa, la capitale del Tibet. Fu mandata in India nel 1950 e studiò prima al Convento di St. Joseph, a Kalimpong, e poi al Convento di Loreto, a Darjeeling, dove, nel 1960, conseguì il livello superiore del Cambridge.
Nel 1961, si trasferì prima in Svizzera e poi in Inghilterra per completare i suoi studi. Fece ritorno in India all'inizio del 1964. Nel giugno di quell’anno, sollecitata da Sua Santità il Dalai Lama, assunse la responsabilità di dirigere il primo TCV “strutturato”, il Villaggio dei Bambini Tibetani di Dharamsala. Da allora fino al 2005 è stata lei la forza motrice del Villaggio e rimane la “madre” di migliaia di bambini tibetani poveri e orfani. I bambini, nella loro maniera spontanea, la chiamano "Ama La" (Madre Rispettata). Sotto la dinamica guida della signora Pema e della sua instancabile dedizione, unite al suo senso di urgenza e alla chiarezza di visione, il Villaggio dei Bambini Tibetani è cresciuto al punto di diventare, fra le istituzioni tibetane in esilio, quella che ha ottenuto i migliori risultati.

 “Dal suo umile inizio, 40 anni fa” racconta Pema  “il Tibetan Children's Village è oggi divenuto una comunità educativa integrata e prosperosa per i bambini tibetani bisognosi in esilio, così come per quelle centinaia che sono fuggiti dal Tibet negli ultimi anni. Ha creato delle filiali in India che si estendono dal Ladakh nel nord, a Bylakuppe nel sud, con oltre 14.000 bambini sotto la sua protezione.
Quarantacinque anni non sono certo un breve periodo nella vita di ognuno, né tanto meno nell'esistenza dei Tibetan Children's Villages.
Il TCV si rende conto della responsabilità che ha nei confronti del destino dei nostri bambini tibetani e della benevolenza delle migliaia di donatori e amici in tutto il mondo che lo hanno sostenuto in tutti questi anni. Oggi siamo fieri di vedere che molte delle persone dei nostri villaggi siano utili nella Comunità Tibetana per diverse capacità ma, allo stesso tempo, ci rendiamo conto che ci sono alcuni bambini ai quali non è andata così bene.
In considerazione di questo, sono stati fatti maggiori sforzi per migliorare di più la vita dei nostri bambini, consci delle lezioni e delle mancanze sperimentate in passato. Benché molto sia stato ottenuto, c'è ancora molta strada da fare per realizzare i nostri scopi e obiettivi, per provvedere ai bambini sotto la nostra protezione con le risorse necessarie e le opportunità di sviluppare le loro capacità al meglio. Come è stato evidenziato da Sua Santità il Dalai Lama nel messaggio per il nostro 35° anniversario: “la futura direzione del nostro programma sarà nel campo dell'educazione avanzata negli studi specializzati per soddisfare la necessità di risorse umane della comunità  durante il nostro periodo di esilio e, molto più importante, quando verrà il nostro momento di ritornare in patria....”
Noi dobbiamo sforzarci di migliorare la qualità dell'istruzione dei nostri bambini e della loro educazione culturale e sociale, senza necessariamente gravare sulla semplicità del nostro esule stile di vita. Tutto quello che abbiamo conseguito non sarebbe stato possibile senza l'ispirazione costante e benedetta di Sua Santità il Dalai Lama, così come l'instancabile supporto e comprensione del governo indiano.
E, ovviamente, non saremmo riusciti a fare così tanto per i nostri bambini senza il continuo aiuto finanziario di tanti buoni amici nel mondo, specialmente il SOS KINDERDORF INTERNATIONAL, la spina dorsale del nostro supporto finanziario.
Non ultimo, dobbiamo ringraziare e ricordare le molte  mamme, collaboratori e insegnanti, di ora e del passato, che hanno dato molto della loro vita e del loro duro lavoro, semplicemente per la gioia di vedere messa al sicuro una vita significativa per i bambini. Sappiamo che non siamo alla fine del nostro cammino e che c'è ancora molto da fare, così come Sua Santità (il Dalai Lama) ha affermato, "i bambini sono i semi del futuro Tibet".
Io mi appello a tutti - ai nostri garanti, alle agenzie donatrici e ai miei colleghi - per continuare ad essere al nostro fianco durante questo difficile periodo della nostra storia e di assisterci nell'educazione e nella cura dei bambini tibetani in esilio.”
Penso che una visita a uno dei tanti TCV disseminati negli insediamenti tibetani dell’India, racconti meglio di qualunque parola od immagine l’anima del Tibet di oggi. Un’anima indomita e compassionevole, legata alle proprie radici e alla propria patria ma con uno sguardo aperto verso il mondo moderno. Cosa certamente diversa dal quel Tibet chiuso e feudale, spesso prigioniero di un clero a volte ottuso e conservatore nel senso peggiore del termine, che non ebbe la capacità di vedere i cambiamenti del mondo all’indomani del secondo conflitto mondiale e che in un certo senso fu anche corresponsabile della situazione attuale. I tibetani, nella loro visione cosmologica del samshara e dell’esistenza, parlano anche di karma e di azioni negative da “espiare” per spiegare la loro situazione di oggi. Sul Tibet e la sua storia, piena di luci e ombre come tutte le storie dei popoli di questo mondo, si può dibattere per giorni. Forse però non ha neppure un grande senso. Quello che ha senso è invece prendere atto che la Cina, prima con la violenza e poi con i suoi modelli di sviluppo forsennato, non ha saputo conquistare e occupare il cuore e l’anima dei tibetani.
Un popolo di sei milioni di individui che evidentemente desidera impostare la propria esistenza su valori diversi. Essi a cinquant’anni dall’insurrezione di Lhasa, trovano il coraggio quasi incosciente e comunque eroico, di sollevarsi e manifestare contro uno dei regimi autoritari più potenti del mondo. Lo abbiamo visto nel 2008. Certi di quello che li aspetta, carcere, torture, morte, gridano “Tibet Libero!” non solo a Lhasa, ma in tutto il Paese delle Nevi fino alle province orientali del Kham e dell’Amdo, divenute cinesi già all’indomani dell’invasione del 1950. E’ un segno inequivocabile che i tibetani in Tibet non sono stati normalizzati. Questo spiega anche tutta la rabbia e la violenta reazione di Pechino, incapace di considerare i propri errori e fare quell’autocritica tante volte inflitta con la violenza nelle “sessioni di rieducazione” che sono la prassi anche ai giorni nostri. E i tibetani hanno risposto a tutto questo iniziando tre anni fa la più tremenda e dolorosa delle forme di protesta. L’auto immolazione dandosi fuoco.

Oggi sono 132 i martiri tibetani che hanno sacrificato la loro vita in questo modo.
Le immagini e i filmati di queste auto immolazioni sono terribili e non vorremmo davvero che il loro sacrificio risultasse vano. 

Ai tibetani in Tibet va il nostro sostegno e la nostra amicizia per quello che la loro lotta, finora non violenta, rappresenta come valore universale. Ai tibetani esiliati in India, in Nepal, va il nostro aiuto materiale e il nostro sostegno perché continuino ad avere voce e perché la loro cultura, almeno nei suoi tratti essenziali, venga preservata.
 Una cultura unica che, non ci stanchiamo mai di dire, appartiene a tutta l’umanità e che è in gran parte nelle mani di questi ragazzi sorridenti e tenaci che difficilmente rinunceranno a lottare, non contro la Cina o contro il popolo cinese, ma solo per l’affermazione della verità.


 “La verità è l’unica arma che abbiamo”   S.S. Il XIV Dalai Lama




domenica 21 febbraio 2016

I Mantra

Per parlare dei mantra, credo sia opportuna una breve spiegazione dell'idea di origine del cosmo da parte delle filosofie orientali. Come molti già sanno l'universo avrebbe avuto origine da un suono, il suono sacro Om. Cosa che poi, se consideriamo tramandata da migliaia di anni, vediamo che, come altre, trova possibili riscontri nella scienza moderna: e se Om fosse il big bang? Ipotesi azzardata?
Comunque tutto ha origine dal suono, il suono è vibrazione, tutto vibra (anche questo comprovato dalla moderna scienza). I mantra quindi sono espressione di questi suoni sacri, di queste vibrazioni. Sono sequenze di vocali e consonanti, per di più in sanscrito. Esistono mantra buddisti, induisti e anche di altre religioni, qui chiaramente andrò ad accennare ai primi.
Innanzitutto abbiamo due tipi di mantra: i cosiddetti "mantra radice" in sanscrito bija mantra, composti da una sillaba, ad esempio Om. Poi mantra composti da una frase ed alcuni molto lunghi. Ci sono stati tramandati, nella maggior parte dei casi direttamente dal Buddha Shakyamuni.
La pratica dei mantra, consiste nella ripetizione, per un certo numero di volte della frase. Per quanto non esista un numero fisso, esistono delle indicazioni, ad esempio per la scuola tibetana, un mantra andrebbe ripetuto 3, 7, 21, 108 volte o loro multipli, tutti numeri sacri.
A questo punto la domanda potrebbe essere: ma come funziona, a cosa serve ripetere tante volte una frase? Ogni mantra è "dedicato" ad un buddha o bodhisattva quindi la ripetizione del suono, ci permette di sviluppare la caratteristica della “divinità” a cui è dedicato, ma anche di trasmettere il potere del mantra ad altre persone. Un mantra può essere recitato a voce alta, bisbigliato, cantato o anche ripetuto mentalmente. In fin dei conti quello che funziona è la vibrazione ed anche mentalmente, produciamo comunque delle onde che vibrano. Teniamo presente che anche noi vibriamo, le nostre cellule, come tutto il cosmo, è in continua vibrazione.
Quando si inizia a conoscere i mantra, quasi in tutti nasce la curiosità della traduzione della frase, cosa significa quello che ripeto? La curiosità è del tutto lecita, personalmente dopo anni di letture di traduzioni, che dal sanscrito per di più possono avere tantissime interpretazioni, credo di avere capito che, come dicevo prima, conta la vibrazione, il suono. Oltre che la motivazione con cui viene ripetuto. Per quanto a chi non ha mai provato una tale pratica possa sembrare strano, essa può dare grandi risultati. Già solo la ripetizione del bija mantra Om, permette di calmare la mente, riequilibrarsi e tornare in sintonia con la vibrazione dell'universo. Qualcuno di voi sta già provando ora, vero?
Per provare a spiegare meglio e per non annoiarvi troppo, vediamo ora qualche mantra fra i più comuni e le loro peculiarità.
Del mantra Om ho già parlato, bisogna però specificare che, per la sua caratteristica è la sillaba di inizio di quasi tutti i mantra in sanscrito.
Direi di iniziare dal Mantra più famoso, più diffuso e certamente di grande potere, il mantra del
Bodhisattva Avalokitesvara, in tibetano Cenrezig, il bodhisattva della compassione:

 Om Mani Padme Um

Serve  appunto a sviluppare in noi la compassione, ad avere benevolenza, a sviluppare la cosiddetta Mente di bodhicitta, la Mente che ha cuore la felicità di tutti gli esseri e la cessazione della sofferenza. Oltre a proteggere chi lo ripete e a chi viene indirizzato o semplicemente lo ascolta.

Altro mantra molto famoso, quello del Buddha Shakyamuni:

Om Muni Muni Mahamunie Soha

Qui troviamo un’altra parola che si incontra in vari mantra ed è “soha”, in breve, volendo dare una spiegazione/traduzione semplice è un po’ come il “così sia” delle preghiere cristiane.
Inutile dire che si tratta di un mantra molto potente, già solo se consideriamo a chi è dedicato, inoltre è il mantra che andrebbe recitato dopo la pratica di purificazione del karma. Per di più, se consideriamo quanto detto prima, cioè lo sviluppo delle caratteristiche della divinità a cui è dedicato… bhè qui stiamo parlando del sommo Maestro.

Un altro mantra molto caro ai buddisti che seguono la scuola tibetana è il mantra di Tara, soprattutto Tara Verde. Piccola spiegazione ci vuole: Tara è un Buddha donna, secondo la leggenda è nata da una lacrima del Bodhisattva Avalokitesvara dovuta alla compassione che lui provava vedendo le enormi sofferenze di noi esseri umani. Tara ha 21 emanazioni, di diversi colori, tra cui appunto verde. La recitazione soprattutto protegge noi stessi e gli altri ed allontana gli ostacoli:

Om Tare Tuttare Ture Soha

Se poi vogliamo portare beneficio a noi o ad altri per delle malattie, cosa di meglio del mantra del Buddha della medicina, qui necessita poca spiegazione, basta dire che recitarlo con la giusta motivazione e con dedizione… funziona:

Tayata Om Bekandze Bekandze Maha Bekandze Bekandze Radza Samudgate Soha

Però qui troviamo un’altra parolina, l’inizio della frase: Tayata. Fu introdotta da Nagarjuna, grande filosofo buddista, ed è una esortazione a tutti gli esseri senzienti che seguano l’esempio del Buddha, il suo cammino fino all’illuminazione.

Questa parola di inizio la troviamo in uno dei mantra a me più caro, il mantra che il Buddha Shakyamuni ci ha trasmesso nel Sutra del Cuore della Saggezza, dove ci spiega la verità di tutto, il fondamento della dottrina buddista, a cui dedicherò degli articoli più avanti:

Tayata Om Gate Gate Paragate Parasamgate Bodhi Soha

Questo mantra “semplicemente” ci fa sviluppare la capacità di conoscere, la possibilità di giungere a vedere la realtà di tutti i fenomeni e quindi arrivare all’illuminazione, per il beneficio di tutti gli esseri senzienti


L’elenco sarebbe ancora lungo, dal mantra delle cento sillabe di Vajrasattva ai mantra a tutte le altre rappresentazioni ed emanazioni del Buddha, direi che per ora basta così. Eventuali traduzioni si possono reperire facilmente sul web, ma come dicevo, conta la vibrazione, la motivazione. Un buon esperimento potrebbe essere di sceglierne uno che più ci “attira” e provare a ripeterlo per un po’ di tempo…. Hai visto che porta qualche miglioramento?

domenica 7 febbraio 2016

Meditazione con visualizzazione


 Riprendiamo a parlare di meditazione. Questa volta proveremo a vedere come meditare visualizzando determinate situazioni che ci possono aiutare a sviluppare comportamenti o rafforzare concetti. Anche  meditare utilizzando la visualizzazione ci è stato insegnato dal Buddha come riportato in alcuni Sutra, ma cosa significa visualizzare? Significa proprio vedere nella propria mente delle scene. Parlandone con chi pratica meditazione, ho scoperto che per alcuni è relativamente semplice, ad altri sembra quasi improponibile. Cosa che conferma la soggettività della meditazione.
Vorrei qui illustrare alcune possibili tecniche.

Iniziamo da come sviluppare la compassione.
Innanzitutto partiamo con la solita tecnica di rilassamento e concentrazione che abbiamo visto nel primo post sulla meditazione. Raggiunto un buono stato di "vuoto" quindi visualizziamo noi stessi, magari anche nella posizione in cui ci troviamo. Vediamo intorno a noi delle persone povere, ammalate, in stato di sofferenza, osserviamole con distacco e superiorità, quasi disprezzo. Ora accanto a questo "noi" aggiungiamone un altro che, al contrario del primo, osserva con amore, compassione, ha il desiderio di liberare quelle persone dalla sofferenza. Vedremo come, in automatismo andremo verso questo "secondo noi" ed aumenteremo il senso di amore e compassione verso tutti gli altri esseri.
Difficile? Ma no!

Un altro esercizio, visto che stiamo aumentando la nostra compassione, è quello di prendere per noi la sofferenza altrui. Ciò serve sia ad assorbire ed alleggerire gli altri esseri dalle loro sofferenze, sia ad aumentare la nostre capacità di compassione.
Raggiunto lo stato di calma, visualizziamo sempre noi stessi circondati da innumerevoli esseri senzienti, posizioniamo accanto a noi i familiari, gli amici; di fronte i "nemici" e poi via via... tutti gli esseri senzienti. Ora vediamo come, espirando dalle narici, tutte queste figure emettano del fumo nero, è la loro sofferenza. Inspiriamo quindi, sempre dalle narici ed assorbiamo tutto quel fumo nero, la loro sofferenza, e visualizziamo che questo fumo entra in noi, arriva alla luce posta all'interno del nostro corpo dentro il cuore, è visualizzata come una scintilla al centro del cuore e lì si purifica. Espiriamo quindi, buttando via tutto quel fumo. Stiamo così alleggerendo tutti gli esseri dal loro stato di sofferenza. Bello no?
Per questo tipo di meditazione diciamo che bisogna essere ben predisposti verso tutti gli altri, ci stiamo caricando, anche se solo per un attimo di tutte le sofferenze, desiderando che tutti siano felici.

Nel precedente post sul karma ho spiegato che la tecnica di "pulizia" dello stesso, può essere riportata fra le varie visualizzazioni, nel momento in cui, invece di avere davanti a noi un'immagine del Buddha, lo visualizziamo durante le meditazione, con intorno a lui tutti i Buddha, i Bodhisattva e i nostri maestri. Vediamo quindi il raggio di luce che parte dal Buddha e, mentre dal nostro corpo esce l'ormai familiare fumo nero, la sua luce ci ricopre, dalla sommità del capo verso il basso, come se il nostro corpo si ricoprisse di miele, per poi risalire, il fascio di luce, fino a raggiungere di nuovo la sommità del nostro capo e lasciare il nostro corpo "cristallino"; a questo punto il Buddha diventa luce ed entra in noi dall' apertura sul nostro capo.... segue recitazione mantra.

L’ultima metodologia che desidero presentare è molto utile per diminuire il nostro attaccamento, uno dei tre veleni. Per farlo prendiamo in esame di nuovo il nostro corpo, una delle cose a cui normalmente si è più “attaccati”. Ricordiamo però che non avere attaccamento non significa diventare nichilisti, ma prendere coscienza che tutto muta e tutto ciò che esiste non esisterà più.
Questa tecnica è stata illustrata dal Buddha ai suoi primi monaci, come riportato in un Sutra. E’ una visualizzazione un po’ per stomaci forti, siete pronti?
Abbiamo raggiunto il nostro stato di quiete e concentrazione e visualizziamo il nostro corpo. Vediamo come, pian piano comincia a.. disfarsi. La pelle si raggrinzisce, e ritira, cadono i capelli e le unghie. Ora riusciamo a vedere che si scoprono i muscoli; la pelle è ormai scomparsa, i muscoli iniziano a deteriorarsi. Liquidi e fluidi scorrono dal nostro corpo, sono sangue, secrezioni, pus. I muscoli stanno scomparendo si vedono tendini, vene, arterie, fuoriesce l'intestino. Cominciamo ad intravedere, fra tutto questo, le ossa. Anche tutti gli altri componenti, il cuore, il fegato, tutti gli organi interni un po’ alla volta si dissolvono. Ormai il nostro corpo è diventato uno scheletro, le ossa si sfaldano, ingialliscono come esposte al sole fino a consumarsi e diventare polvere. Ops… non ci siamo più.
Tutto bene?
Direi che è un ottimo esercizio per renderci conto che non vale la pena “essere attaccati”.


Queste riportate sono alcune delle varie visualizzazioni che si possono realizzare, credo che siano un buon punto di partenza per testare questo nuovo metodo. Chiaro che i risultati non arriveranno con una due sedute su un tema, ma come al solito ci vorrà esercizio, dedizione ed impegno. Se qualcuno di voi prova, mi farebbe piacere sapere che risultati o almeno che sensazioni ha raggiunto.