"Andando a spasso con Buddha, si incontrano altri viandanti impegnati sui loro sentieri. Tempo fa ebbi occasione di conoscere una persona che sta dedicando la sua esistenza a far conoscere il Tibet, il suo popolo, la sua cultura ed i problemi dovuti all'occupazione da parte dell Cina. È un viaggiatore, scrittore, musicista ed è il presidente dell'associazione Italia-Tibet (www.italiatibet.org.)
Il suo nome è Claudio Cardelli ed ha scritto questo articolo per noi di aspassoconbudda.
L’Associazione Italia Tibet
Un po’ di storia
In una fredda giornata
dell’autunno 1987 sono a casa di Fosco Maraini a Firenze.
Il gigantesco camino ospita
alcuni sterpi e pigne del parco che, scoppiettando, emettono un gradevole
tepore, un fumo denso, un aroma penetrante di resina. Il professore appoggia su
un tavolinetto a lato della sua poltrona la Lettera 22 con cui ha scritto ogni
riga fino agli ultimi giorni della sua vita, prende un tè da un vassoio che ci
ha appena portato sua moglie Mieko e dopo il primo sorso appena accennato
dice..: “Vedi, noi tutti che amiamo il Tibet, la sua cultura, la sua gente
straordinaria, dovremmo creare una associazione organizzata, con tanto di
statuto, con una sede, un notiziario…Dovremmo aiutare i tibetani ad uscire da
questa morsa repressiva, da questa cortina di piombo invalicabile, da questo
muro di silenzio e indifferenza…” “E magari tu saresti il presidente!” attacco
io. “No, no, che presidente…Io potrei essere un consulente, uno che vi aiuta,
ma la gestione deve essere in mano a voi giovani!”
Noi giovani! Già. Sembra ieri che
eravamo i “noi giovani” e ci siamo ritrovati ora, qui e in un battibaleno in
cui è successo tanto, e allo stesso tempo niente, alla vigilia del 55°
anniversario dell’insurrezione di Lhasa.
Certo da allora la barba è un po’
imbiancata e il presidente di quell’associazione Italia-Tibet, vagheggiata nel
lontano pomeriggio toscano, e concretizzata poi, nel 1988, assieme a Piero
Verni, Vicky Sevegnani, Carmen Leccardi e un pugno di amici, sono oggi io.
Prima di me Piero Verni.. (14
anni) poi Gunther Cologna per 6 anni.
Quasi 28 anni anni per la Causa,
dunque, “The Sacred Cause of Tibet”.
Avevo incontrato per la prima
volta dei tibetani a Delhi negli anni 70. Erano fuggiti dal Tibet e dalla
Rivoluzione Culturale che era appena finita. Raccontavano e piangevano.
Singhiozzavano… Fu un colpo al cuore. Capii quanta sofferenza e ingiustizia
c’era in quella terribile vicenda e rimasi con la certezza che non avrei più
abbandonato l’idea di aiutarli come potevo.
Iniziai subito a viaggiare nelle
zone di cultura tibetana dell’India e nel 1982 incontrai per la prima volta il
Dalai Lama. A Milano al circolo della stampa.
Aveva 47 anni. Veniva da Parigi,
Era terribilmente raffreddato e alla conferenza stampa che avevamo organizzato
non era presente nessun giornalista. Ho raccontato fino alla nausea il fatto
che Piero Verni mi prego di salire da Rimini con un po’ di gente per non far
trovare la sala vuota a Sua Santità. Incredibile! Oggi ogni volta che arriva si
scatena una ridda di richieste le più balzane e surreali, mentre le testate
fanno a gara per avere un’intervista…
Guardai quell’uomo da vicino per
la prima volta. Mi strinse le mani. Ci parlò della situazione del Tibet.
Sorrideva ma amaramente. Mi sentii legato a lui e al destino della sua gente.
Riprovai quel brivido amaro che sentii a Delhi parecchi anni prima. Il Tibet ed
io eravamo legati. Indissolubilmente.
La proposta di Strasburgo, il piano di pace in
5 punti di Washington e Italia Tibet erano ancora lontani. E il Tibet era “off
limits”
Da allora ho incontrato il Dalai
Lama tantissime volte; è diventato cittadino onorario di Rimini ed è venuto sin
qui ben tre volte, addirittura fino alla mia vallata, la Valmarecchia, per
rendere omaggio al frate cappuccino Orazio Olivieri da Pennabilli che fu nunzio
a Lhasa nel XVIII sec e scrisse il primo dizionario italiano-tibetano.
Vorrei dunque parlare in queste
poche righe della nostra Associazione a quelli che non la conoscono o che sono
arrivati dopo..
Il ritorno dal primo viaggio in
Tibet del 1987 fu determinante per tutti noi nel riconoscere la necessità di
fondare in Italia un vero “Tibet Support Group”: gli scontri di settembre, la
legge marziale, le repressioni, le testimonianze dirette, nostre ma anche di
tanti altri viaggiatori e appassionati che da anni speravano sia nell’apertura
al turismo del Tetto del Mondo sia nell’apertura di Pechino verso una maggiore
libertà e rispetto dei diritti dei tibetani, il cui paese era stato invaso e occupato
dalla Cina nel 1950.
L’Associazione Italia-Tibet
nacque con uno statuto ben preciso che riconosceva il Dalai Lama come
rappresentante legittimo del popolo e della nazione tibetana e sosteneva il suo
piano di pace in 5 punti presentato a Washington e perfezionato l’anno
successivo a Strasburgo. Piano di pace che, di fatto, auspicava per il Tibet
una forma di autonomia “genuina” e lasciava a Pechino la gestione della
politica estera e della difesa rinunciando di fatto per la prima volta all’idea
di indipendenza.
Da allora il Dalai Lama ha
viaggiato il globo terracqueo in lungo e in ripetendo fino a perdere fiato la
sua rinuncia all’indipendenza (comunque diritto morale e giuridico di un paese
illegalmente occupato) e nel chiedere per la sua gente almeno il rispetto della
cultura, del diritto alla libertà religiosa, della lingua, delle tradizioni
all’interno della Repubblica Popolare Cinese. Rinuncia non poco dolorosa per le
migliaia di tibetani che avevano perso congiunti, uccisi o imprigionati dalla
polizia cinese e dalle guardie rosse o che erano fuggiti in India alla ricerca
di una nuova esistenza, lontani dalla patria ma vicini al loro riferimento
spirituale e politico.
Ciononostante Pechino ha
continuato con protervia ad accusare il Dalai Lama di essere un separatista
sotto mentite spoglie, di parlare, secondo un linguaggio caro alla rivoluzione
culturale, “con lingua biforcuta”, di essere sostenuto e strumentalizzato dagli
imperialisti occidentali.
Oggi, 2016, la situazione appare
senza sbocchi visto anche il fallimento totale dei “negoziati” tra tibetani e
cinesi, andati avanti per sei anni senza un progresso concreto: di fatto, il
dialogo è stato inesistente e si è tradotto in una serie d’insulti e
aggressioni da parte cinese che ricordano molto la famosa storiella del “Lupo e
dell’Agnello”.
In questi ventisei anni di vita
l’Associazione Italia-Tibet si è mossa sempre sul doppio fronte politico e
umanitario. Attraverso un’instancabile attività di divulgazione, con seminari,
mostre, meeting, rassegne, conferenze, eventi, l’Associazione ha contribuito in
maniera decisiva alla presa di coscienza, nel nostro paese, del problema del
Tibet da parte di un pubblico sempre più vasto.
Sul fronte umanitario la nostra
Associazione ha svolto un ruolo di primo ordine nel contribuire a finanziare lo
sviluppo dei TCV (Tibetan Children Villages), l’istituzione dei tibetani in
esilio in India alla quale è deputata la salvaguardia della cultura e delle tradizioni del Paese delle Nevi.
Permettetemi in questa sede di
ricordare alcune delle più importanti iniziative di cui siamo stati promotori,
organizzatori e protagonisti. Lontane sono ormai negli anni le nostre storiche
“incursioni” al Festival dei Teatri di Santarcangelo con la compagnia fantoccio
del teatro tibetano in tour per conto di Pechino, o alle mostre sui “tesori”
del Tibet ostentati con arroganza dai cinesi, come un ladro che organizza una
mostra sulla propria refurtiva, alla Rinascente a Milano.. Mentre la nostra
presenza alle manifestazioni del 10 marzo da Dharamsala a Roma a Parigi,
Bruxelles, Londra Ginevra sono state costanti. Sul fronte umanitario e di aiuto
concreto ai rifugiati tibetani nel 2000, grazie alla mia sollecitazione e a
quella di Stefano Dallari, presidente della Casa del Tibet di Votigno di
Canossa e allora nostro consigliere, Luciano Pavarotti accettò di dedicare il
suo encomiabile Pavarotti&Friends ai bambini tibetani e cambogiani. Con i
fondi del Pavarotti&Friends (oltre un milione di dollari…) fu costruita
un’importantissima scuola professionale a Mussoorie, nello stato indiano
dell’Uttar Pradesh.
Alcuni anni or sono abbiamo
“adottato” la piccola scuola di Sumdho-Henle, sperduta nel Ladakh, vicino al
lago Tsomoriri, e da allora, grazie a numerose iniziative, abbiamo raccolto
diversi fondi: voglio ricordare “In Moto per il Tibet”, un motoraduno in alta
Val Marecchia nel 2006, gli spettacoli “Lo” e “Blood Brothers” a Forlì, le
mostre di pittura, il Cardiolab
2007-2008 e 2009, con un gruppo di medici riminesi che hanno viitato oltre 3000
tibetani, concerti e donazioni di privati, enti e società.
Indimenticabile nel 2002 il
Castagneto Day, gemellaggio culturale tra le tradizioni toscane e quelle di
culture a rischio sul pianeta promosso dalla Global World Foundation di Franco
Malenotti, che ospitò il Tibet e la stessa Jetsun Pema, sorella del Dalai Lama
e allora presidente dei Tibetan Children Villages, per una cospicua raccolta
fondi per il TCV di Leh.
Questi fondi furono recapitati in
loco da Emerson Gattafoni e dallo scrivente realizzando anche un documentario
per la Rai, “Eastern Road”, con un ampio capitolo dedicato ai TCV. Nel 2011 è in programma un altro grande
progetto con Emerson e la ONLUS di Bergamo Africa 3000.
Ed è proprio parlando di Tibetan
Children Villages, che, per concludere, vorrei condividere con voi alcune righe
che scrissi tempo fa ricordando il mio incontro con “L’Infanzia del Tibet”.
Fu alla fine degli anni ’70, in
Ladakh, in una località nei pressi di Leh chiamata Choglamshar.
Non avevo le idee molto chiare
sulla situazione dei rifugiati tibetani e facevo fatica a capire la differenza
tra loro e i locali ladaki. Quel viaggio, il primo in un territorio a cultura
tibetana, costituì una delle mie prime “folgorazioni” giovanili per il popolo
del Tibet e la sua triste vicenda storica, politica e umana.
Quando, sulla direzione di Hemis
Gompa, notai in prossimità della strada una serie di case basse in stile
tibetano e con tante bandierine che garrivano alla brezza, ne fui molto colpito
e mi resi conto che si trattava di un insediamento particolare, organizzato. Un
villaggio? Un college? L’autista del bus disse semplicemente “TCV school…” Mi
feci spiegare il significato della sigla e lo pregai di fermarsi subito. A
piedi salii col fiatone dei 3700 metri lungo la strada fiancheggiata da un alto
muro fino all’ingresso principale. Giovani voci lontane provenivano da casupole
basse con le tipiche finestre bordate di nero. I “tarchò” sugli angoli di ogni
edificio si agitavano al vento. Proseguii, curioso ed eccitato.
Si udivano ora canti
perfettamente intonati e in un cortile centinaia di bambini di diverse età
sembravano in piena ricreazione. Mi venne incontro una ragazza, una maestra,
con un sorriso indicibile. Con un leggero inchino ci invitò ad accomodarci:
tashi delek!
Avevo la mia Nikon F nella borsa
e non vedevo l’ora di aggirarmi tra quei volti e quei sorrisi ma prima volli, e
dovetti, ascoltare la storia del Tibetan Children Villages.
La ragazza mi parlò della fuga
dal Tibet nel 1959 e dell’arrivo nell’umida, calda e intricata foresta
dell’Arunachal Pradesh. Mi parlò dei cinesi e delle repressioni sanguinose,
della fatica e delle morti lungo il tragitto. Congelamenti, amputazioni,
infezioni. I tibetani, abituati alle grandi altezze e all’aria secca
dell’altipiano, nel clima caldo umido del sub continente indiano si ammalavano
e morivano come mosche Mi disse poi come il governo dell’India avesse assegnato
ai profughi diversi insediamenti; alcuni erano ex campi di prigionia inglesi
nell’ Himachal, altri lande desertiche nel
Karnataka a sud dell’India
I tibetani non avevano più nulla
se non quello che erano riusciti a portare con sé e, come primo impiego,
lavorarono come operai alla costruzione delle strade himalayane. Fino
all’indipendenza dell’India, in tutta la catena dell’Himalaya non esistevano
strade carrozzabili: i duemila chilometri di barriera invalicabile erano
attraversati solo da antiche carovaniere che si arrampicavano su arditi
sentieri fino a oltre 5000 metri di altezza. Il governo dell’India iniziò,
negli anni ’60, a realizzare le prime vertiginose strade che si inerpicavano su
per i valichi del Rothang, dello Zoji
la, a occidente, e del Natu La, a oriente. Qui migliaia di tibetani con le
mani, martelli e scalpelli, spaccavano pietre e disegnavano sulle montagne
quelle che da lontano sembravano solo piccole scalfitture ma che erano, di
fatto, le prime vie di comunicazione percorribili da mezzi motorizzati.
Erano famiglie intere migrate su
quelle ostili pendici. Gli uomini e le donne lavoravano tutto il giorno ma poco
lontano dal cantiere si potevano scorgere delle ampie tende rimediate alla
meglio sotto le quali stavano decine di bambini a naso all’insù intenti ad
ascoltare le parole di una giovane. Qualcuno aveva delle piccole lavagne. Altri
addirittura dei piccoli quaderni, regalo di qualche personaggio locale. Era la
nascita del Tibetan Children Villages. Fu l’allora giovanissima Jetsun Pema,
sorella di Sua Santità il Dalai Lama, a iniziare l’organizzazione delle scuole
dei piccoli profughi.
“Se perderemo la nostra cultura
perderemo tutto”, disse a Pema il Dalai Lama. “La prima cosa che dobbiamo
organizzare sono delle scuole per i nostri giovani”.
Le poche ore in quel TCV
rimangono indelebili nella mia memoria. Il villaggio era stato costruito da
poco e ospitava qualche centinaio di bambini, oggi arrivati a oltre 2000.
Avevano bisogno di diverse cose e tutte essenziali, ma la dignità e la
determinazione di quelle ragazze insegnanti dette anche “mamme” e gli sguardi
vivissimi, intelligenti e sereni di quel piccolo popolo disperso al di là del
suo confine naturale himalayano, facevano capire che l’essenza del loro
obiettivo sarebbe stato raggiunto contro qualsiasi avversità. Tornai al TCV di
Leh diverse volte da allora ed ebbi modo di fare amicizia con la stessa signora
Jetsun Pema. Vorrei lasciare a una delle sue interviste la descrizione e il
messaggio che proviene dal Children Villages.
Jetsun Pema è nata a Lhasa, la
capitale del Tibet. Fu mandata in India nel 1950 e studiò prima al Convento di
St. Joseph, a Kalimpong, e poi al Convento di Loreto, a Darjeeling, dove, nel
1960, conseguì il livello superiore del Cambridge.
Nel 1961, si trasferì prima in
Svizzera e poi in Inghilterra per completare i suoi studi. Fece ritorno in
India all'inizio del 1964. Nel giugno di quell’anno, sollecitata da Sua Santità
il Dalai Lama, assunse la responsabilità di dirigere il primo TCV
“strutturato”, il Villaggio dei Bambini Tibetani di Dharamsala. Da allora fino
al 2005 è stata lei la forza motrice del Villaggio e rimane la “madre” di
migliaia di bambini tibetani poveri e orfani. I bambini, nella loro maniera
spontanea, la chiamano "Ama La" (Madre Rispettata). Sotto la dinamica
guida della signora Pema e della sua instancabile dedizione, unite al suo senso
di urgenza e alla chiarezza di visione, il Villaggio dei Bambini Tibetani è
cresciuto al punto di diventare, fra le istituzioni tibetane in esilio, quella
che ha ottenuto i migliori risultati.
“Dal suo
umile inizio, 40 anni fa” racconta Pema “il Tibetan Children's Village è oggi
divenuto una comunità educativa integrata e prosperosa per i bambini tibetani
bisognosi in esilio, così come per quelle centinaia che sono fuggiti dal Tibet
negli ultimi anni. Ha creato delle filiali in India che si estendono dal Ladakh
nel nord, a Bylakuppe nel sud, con oltre 14.000 bambini sotto la sua
protezione.
Quarantacinque anni non sono certo un breve periodo nella vita di
ognuno, né tanto meno nell'esistenza dei Tibetan Children's Villages.
Il TCV si rende conto della responsabilità che ha nei confronti del
destino dei nostri bambini tibetani e della benevolenza delle migliaia di
donatori e amici in tutto il mondo che lo hanno sostenuto in tutti questi anni.
Oggi siamo fieri di vedere che molte delle persone dei nostri villaggi siano
utili nella Comunità Tibetana per diverse capacità ma, allo stesso tempo, ci
rendiamo conto che ci sono alcuni bambini ai quali non è andata così bene.
In considerazione di questo, sono stati fatti maggiori sforzi per
migliorare di più la vita dei nostri bambini, consci delle lezioni e delle
mancanze sperimentate in passato. Benché molto sia stato ottenuto, c'è ancora
molta strada da fare per realizzare i nostri scopi e obiettivi, per provvedere
ai bambini sotto la nostra protezione con le risorse necessarie e le opportunità
di sviluppare le loro capacità al meglio. Come è stato evidenziato da Sua
Santità il Dalai Lama nel messaggio per il nostro 35° anniversario: “la futura
direzione del nostro programma sarà nel campo dell'educazione avanzata negli
studi specializzati per soddisfare la necessità di risorse umane della
comunità durante il nostro periodo di
esilio e, molto più importante, quando verrà il nostro momento di ritornare in
patria....”
Noi dobbiamo sforzarci di migliorare la qualità dell'istruzione dei nostri
bambini e della loro educazione culturale e sociale, senza necessariamente
gravare sulla semplicità del nostro esule stile di vita. Tutto quello che
abbiamo conseguito non sarebbe stato possibile senza l'ispirazione costante e
benedetta di Sua Santità il Dalai Lama, così come l'instancabile supporto e
comprensione del governo indiano.
E, ovviamente, non saremmo riusciti a fare così tanto per i nostri
bambini senza il continuo aiuto finanziario di tanti buoni amici nel mondo,
specialmente il SOS KINDERDORF INTERNATIONAL, la spina dorsale del nostro
supporto finanziario.
Non ultimo, dobbiamo ringraziare e ricordare le molte mamme, collaboratori e insegnanti, di ora e
del passato, che hanno dato molto della loro vita e del loro duro lavoro,
semplicemente per la gioia di vedere messa al sicuro una vita significativa per
i bambini. Sappiamo che non siamo alla fine del nostro cammino e che c'è ancora
molto da fare, così come Sua Santità (il Dalai Lama) ha affermato, "i
bambini sono i semi del futuro Tibet".
Io mi appello a tutti - ai nostri garanti, alle agenzie donatrici e ai
miei colleghi - per continuare ad essere al nostro fianco durante questo
difficile periodo della nostra storia e di assisterci nell'educazione e nella
cura dei bambini tibetani in esilio.”
Penso che una visita a uno dei
tanti TCV disseminati negli insediamenti tibetani dell’India, racconti meglio
di qualunque parola od immagine l’anima del Tibet di oggi. Un’anima indomita e
compassionevole, legata alle proprie radici e alla propria patria ma con uno
sguardo aperto verso il mondo moderno. Cosa certamente diversa dal quel Tibet
chiuso e feudale, spesso prigioniero di un clero a volte ottuso e conservatore
nel senso peggiore del termine, che non ebbe la capacità di vedere i
cambiamenti del mondo all’indomani del secondo conflitto mondiale e che in un
certo senso fu anche corresponsabile della situazione attuale. I tibetani,
nella loro visione cosmologica del samshara e dell’esistenza, parlano anche di
karma e di azioni negative da “espiare” per spiegare la loro situazione di
oggi. Sul Tibet e la sua storia, piena di luci e ombre come tutte le storie dei
popoli di questo mondo, si può dibattere per giorni. Forse però non ha neppure
un grande senso. Quello che ha senso è invece prendere atto che la Cina, prima
con la violenza e poi con i suoi modelli di sviluppo forsennato, non ha saputo
conquistare e occupare il cuore e l’anima dei tibetani.
Un popolo di sei milioni di
individui che evidentemente desidera impostare la propria esistenza su valori
diversi. Essi a cinquant’anni dall’insurrezione di Lhasa, trovano il coraggio
quasi incosciente e comunque eroico, di sollevarsi e manifestare contro uno dei
regimi autoritari più potenti del mondo. Lo abbiamo visto nel 2008. Certi di
quello che li aspetta, carcere, torture, morte, gridano “Tibet Libero!” non
solo a Lhasa, ma in tutto il Paese delle Nevi fino alle province orientali del
Kham e dell’Amdo, divenute cinesi già all’indomani dell’invasione del 1950. E’
un segno inequivocabile che i tibetani in Tibet non sono stati normalizzati.
Questo spiega anche tutta la rabbia e la violenta reazione di Pechino, incapace
di considerare i propri errori e fare quell’autocritica tante volte inflitta
con la violenza nelle “sessioni di rieducazione” che sono la prassi anche ai
giorni nostri. E i tibetani hanno risposto a tutto questo iniziando tre anni fa
la più tremenda e dolorosa delle forme di protesta. L’auto immolazione dandosi
fuoco.
Oggi sono 132 i martiri tibetani
che hanno sacrificato la loro vita in questo modo.
Le immagini e i filmati di queste
auto immolazioni sono terribili e non vorremmo davvero che il loro sacrificio
risultasse vano.
Ai tibetani in Tibet va il nostro
sostegno e la nostra amicizia per quello che la loro lotta, finora non
violenta, rappresenta come valore universale. Ai tibetani esiliati in India, in
Nepal, va il nostro aiuto materiale e il nostro sostegno perché continuino ad
avere voce e perché la loro cultura, almeno nei suoi tratti essenziali, venga
preservata.
Una cultura unica che, non ci stanchiamo mai
di dire, appartiene a tutta l’umanità e che è in gran parte nelle mani di
questi ragazzi sorridenti e tenaci che difficilmente rinunceranno a lottare,
non contro la Cina o contro il popolo
cinese, ma solo per l’affermazione
della verità.
“La verità è l’unica arma che abbiamo” S.S. Il XIV Dalai Lama