mercoledì 9 dicembre 2015

Un po(st) diverso

Senza neanche accorgerci sono passati tre mesi dalla nascita del blog. Era il 13 settembre 2015 quando seguendo una serie di condizioni, ho messo online A Spasso con Budda. Era un giorno di luna nuova e giornata dedicata al Buddha Shakyamuni. Quindi il blog è nato. In questo articolo un po’ diverso dagli altri voglio parlarvi del perché è nato e, se magari a qualcuno può interessare, chi è che sta scrivendo.
L’idea di scrivere questi post è nata quando, confrontandomi con una persona conosciuta in un gruppo facebook, ho scoperto che le “dritte” erano apprezzate e stava ottenendo buoni risultati; ho riflettuto quindi sul fatto che, siccome lo scopo della pratica buddista è prodigarsi per permettere a tutti gli esseri senzienti di raggiungere la felicità, potevo provare a scrivere quelle cose per un pubblico più vasto. L’idea di base è stata di provare a spiegare in maniera facile i pur non sempre intuitivi insegnamenti del Buddha, più che altro per far si che i lettori fossero poi spinti ad approfondire attingendo a fonti ben più autorevoli e preparate di me.
Così iniziai a scrivere alcuni post che di volta in volta state trovando pubblicati, mentre ne preparo di nuovi. Il nome del blog è nato invece dopo qualche giorno di brain storming con un amico sul posto di lavoro, dopo una lunga serie di nomi improponibili, accettabili e tante risate è venuto fuori. Ed eccoci, dopo tre mesi con più di 1600 visualizzazioni. A dire il vero proprio non me lo aspettavo, tantomeno mi aspettavo di ricevere ringraziamenti così sinceri da alcuni amici e anche da lettori sconosciuti. Ciò che mi sono ripromesso quando ho iniziato a scrivere è che, se anche una sola persona potrà trarre beneficio da quello che scrivo, il mio impegno sarà più che ripagato.
Ma chi è che vi propina queste cose da leggere? Qualcuno di voi mi conosce di persona, altri solo attraverso contatti web, con altri non sappiamo reciprocamente nulla. Come avrete visto dai miei contatti sul blog, mi chiamo Mariano, in questa vita sono arrivato quasi cinquanta anni fa e già da adolescente, per quanto cristiano cattolico di nascita, iniziavo a studiare ed approfondire le varie “spiritualità” che circolano sul nostro pianeta. Certamente era la parte orientale che mi interessava maggiormente e mi dedicai ad approfondire buddismo, taoismo e così via, non perdendo d’occhio cristianesimo e islam. Alla fine formai un mio modo di vedere e quando, nel 2004 ebbi il primo contatto con una scuola buddista, la mia reazione fu :”ero buddista e non lo sapevo, o meglio non me ne ricordavo”. Qui non sto a parlare di quali scuole ho seguito, perché purtroppo alcuni ancora fanno differenze e creano diatribe su questo argomento. Fatto sta che dopo circa dieci anni di studio e pratica, il mio cammino mi ha portato a deviare su un sentiero che è, per me, più adatto. Possiamo dire quindi che “ ho cambiato scuola”, certamente per l’evoluzione personale che sto seguendo. Questo mi ha portato ad approfondire maggiormente gli insegnamenti a partire dai primi, a leggere i Sutra, studiare testi e seguire una pratica quotidiana più impegnativa legata alla relativa condotta di vita.
Dove cercheremo di andare? Nei prossimi mesi seguirò a parlare di insegnamenti, vedremo argomenti come la compassione, il karma, i Mantra e tanti altri, continueremo ad approfondire tecniche di meditazione, ma anche argomenti che verranno fuori dall’osservazione della società che ci circonda. Mi riprometto anche di ospitare post di amici, sia di altre scuole buddiste sia esperti di argomenti in qualche modo correlati. La cosa che mi farebbe piacere è che lasciaste qualche commento, qualche idea direttamente sul blog, nell’apposito form. Molti mi scrivono soprattutto su facebook, ma commentare sul blog potrebbe portare ad un miglior confronto tra tutti noi, invito quindi, chi ne avesse voglia a cominciare a scrivere qualcosa ed anche, per poter sempre essere aggiornati sui nuovi articoli, ad aggiungere la vostra mail nell’apposito spazio in alto a destra, in questo modo riceverete le notifiche di nuovi articoli pubblicati.
Ormai siamo a ridosso delle festività natalizie che, per cattolici e non è comunque un periodo di “impegni”. Per quest’anno quindi il blog si ferma qui dandovi appuntamento al 2016. Auguro a tutti voi, comunque vediate e viviate queste feste,  di vivere questo periodo con consapevolezza e con amore, per far si magari di continuare, dopo il periodo festivo, a vivere allo stesso modo.
Om Mani Pemme Hum
Mariano.



domenica 29 novembre 2015

Meditazione: ostacoli, antidoti, concentrazione univoca

Nel precedente articolo sulla meditazione, ho cercato di introdurre la tecnica base per iniziare a stare seduti sul cuscino e calmare la mente.
Chi di voi ha provato ha ottenuto certamente dei risultati che saranno molto soggettivi.
Ora che ne dobbiamo fare di quanto imparato e sperimentato?
Innanzitutto già quello che stiamo facendo con le precedenti istruzioni è un buon metodo per rilassarsi e iniziare, anche se magari in modo inaspettato, a scoprire qualcosa di più su noi stessi e il mondo che ci circonda.
C’è un altro passo che ora possiamo compiere.
La meditazione di concentrazione univoca.
Credo che già dal nome sia intuitivo di cosa si tratta. Ci mettiamo a meditare e concentriamo la mente su un unico oggetto, detto appunto “oggetto di meditazione”. Per fare bene ciò è meglio conoscere prima quali sono i nemici che si opporranno e quali gli alleati che ci aiuteranno a sconfiggerli. I primi sono

 I cinque ostacoli:
1. pigrizia
2. dimenticanza
3. agitazione mentale
4. non applicazione degli antidoti
5. eccessiva applicazione

I cinque ostacoli sono costantemente presenti in noi, i primi tre soprattutto credo che nessuno di noi possa dire di non sperimentarli quotidianamente.
Troppe volte non ci si dedica alla meditazione perché “e vabbè…lo faccio dopo” oppure “ stavo guardando la tv, me ne sono dimenticato”. Per non parlare poi della mente scimmia di cui abbiamo già parlato.
Anche il 5°, l’eccessiva applicazione, è un ostacolo, porta stanchezza e quindi scarsi risultati. Per ovviare a ciò ci vengono in aiuto, come dice il quarto ostacolo:

Gli otto antidoti:
1. fede
2. aspirazione
3. sforzo gioioso
4. flessibilità
5. presenza mentale
6. introspezione
7. applicazione
8. non applicazione

Applicando gli antidoti qui sopra citati, dovremmo essere in grado di praticare una meditazione ben sostenuta. La fede qui è intesa più che dal punto di vista religioso, come fiducia, fede appunto in quello che stiamo facendo e del perché lo stiamo facendo. Aspiriamo quindi ad ottenere i meravigliosi risultati che solo la meditazione, l’introspezione in noi stessi e l’indagine su ciò che ci circonda ci può dare.
Per fare questo sforziamoci, gioiosamente. Dovrebbe sempre essere un piacere ciò che facciamo e quindi bensì comporti sforzo, questo dovrebbe essere appunto gioioso. Siamo però flessibili in ciò, l’intransigenza non porta mai buoni risultati.
Ovvio il quinto, la presenza mentale, senza di essa non andiamo da nessuna parte.
Introspezione, applicazione e non applicazione, quindi ricerca interiore, applicazione in quello che si sta facendo, non applicazione dei cinque ostacoli.

Torniamo ora al nostro esercizio meditativo. Ci accomodiamo, ognuno con la posizione che ha scelto ed iniziamo con la nostra respirazione. Ci rilassiamo, seguiamo il nostro respiro. Rilassiamo il corpo, partiamo dalla testa, il collo e le spalle, che sono le zone dove si accumulano maggiormente le tensioni, andiamo al tronco la schiena e le braccia. Passiamo al bacino ed alle gambe fino alle punte dei piedi.
Bene, ora siamo rilassati e concentrati sul nostro respiro, il corpo è rilassato e comodo. A questo punto spostiamo la mente dal respiro al nostro oggetto di meditazione.
Ma cos’è l’oggetto di meditazione? È un oggetto che visualizziamo nella mente; possiamo scegliere un’ immagine del Buddha, la fiamma di una candela, un colore, un pezzo di legno. Insomma un po’ quello che ci pare. L’importante è vederlo e tenerlo lì, nella nostra concentrazione più a lungo possibile.
Questo tipo di meditazione può essere anche eseguito ad occhi aperti, avendo davanti a noi l’oggetto scelto. Il grande Tiziano Terzani racconta che quando meditava sull’ Himalaya, nel cuore della notte, fissava lo sguardo sulla fiamma della candela. Chi di noi non è mai rimasto “incantato” guardando un falò o il fuoco del camino.
Ora dobbiamo “solo” tenere la mente concentrata sull’oggetto. Appariranno le solite distrazioni di cui abbiamo già parlato, ben vengano, tanto le lasciamo andare, ricordate? Così con un po’ di esercizio riusciremo ad essere fermi lì sul nostro oggetto. Le prime volte sarà per un secondo, poi un minuto, poi cinque fino magari ad arrivare a quindici minuti e così via. Tranquilli, ci vogliono anni. Ehi non vi scoraggiate, i risultati valgono bene lo sforzo e ricordate che deve essere gioioso.

Si dice che un buon alternarsi fra meditazione di concentrazione univoca e meditazione analitica, sia la strada migliore per ottenere grandi risultati. Quindi esercizio, occhi chiusi o aperti, come avrete scelto, così la prossima volta potremo andare avanti su altre metodologie di meditazione.

domenica 15 novembre 2015

La Quarta Nobile Verità

Ed eccoci qui! La quarta Nobile Verità esposta dal Buddha, come far cessare la sofferenza.
Fin qui abbiamo visto le caratteristiche della sofferenza e le cause, abbiamo visto anche che la sofferenza può cessare. Ora vedremo in che modo.
Spesso quando si parla di spiritualità, non esclusivamente di buddismo, si dice che una persona che persegue la spiritualità è “sul sentiero”; bene, il metodo per far cessare la sofferenza è “Il Nobile Ottuplice sentiero”. Innanzitutto specifichiamo, usando una frase che spesso utilizza un mio amico e che a me piace molto, che appunto si tratta di un sentiero e quindi, per caratteristica propria, si percorre lentamente, altrimenti, come dice spesso lui, si sarebbe chiamato autostrada. Vorrei anche chiarire che non si tratta di comandamenti come potrebbero essere intesi per chi conosce la religione cristiana, si tratta, come ho detto prima di un metodo, di una condotta che ci può portare alla fine della sofferenza e delle sua cause.
Qual’ è quindi questo sentiero? Quali sono le sue ottuplici prerogative?
  • Retta Visione
  • Retto Pensiero
  • Retta Parola
  • Retta Azione
  • Retti Mezzi di Sostentamento
  • Retto Sforzo
  • Retta Consapevolezza
  • Retta Concentrazione

Questi elementi vengono raggruppati in tre ambiti: i primi due riguardano la saggezza, i successivi tre la moralità e gli ultimi tre la concentrazione.
Premetto che qui di seguito, analizzando i vari aspetti, andremo ad incontrare altri concetti che verranno poi successivamente approfonditi.
Direi quindi di iniziare.

Retta Visione
La retta visione nasce dalla comprensione delle precedenti tre verità: quindi l’esistenza della sofferenza, delle sue cause e della sua cessazione. Non è difficile da comprendere a livello intellettuale, ma siccome non dice retta comprensione, bensì retta visione, dobbiamo salire un gradino più in alto del semplice livello di comprensione intellettuale. Dobbiamo arrivare a “realizzare” nel profondo della nostra coscienza, del nostro sapere, e quindi avere la visione della realtà. Questo si raggiunge con la contemplazione, la meditazione. Si arriva a concepire che tutto è soggetto a nascita e cessazione, contempliamo il nostro corpo, non identifichiamoci più con esso, esso è nato e cesserà, contempliamo questa realtà.
Arriviamo a comprendere che tutto è semplicemente ciò che è.
Se contempliamo la bellezza di un fiore, semplicemente contempliamo la bellezza, senza giudizio, se assistiamo ad un evento tragico potremmo pensare che il mondo è ingiusto il “caso” è ingiusto. Tutto ciò è dettato da giudizi della mente ignorante. La retta Visione ci porta a osservare tutto questo realizzando che semplicemente è. A cosa ci serve la retta visione? Ci serve a contemplare le cose per come sono, per quello che sono. Senza giudizio, in modo tale da non far crescere sentimenti o stati d’animo come rabbia, odio, ma analizzando tutto con saggezza. Con la retta visione si può arrivare a percepire la vera essenza delle cose, la loro vacuità, il fatto che esse siano, le cose, ma anche le situazioni, le sensazioni, le emozioni, prive di esistenza propria. Questo della vacuità è un concetto fondamentale e ritengo principale nella pratica buddista e meriterà per questo un approfondimento successivo. Per ora limitiamoci a quanto accennato. Sviluppando e praticando quindi la retta visione potremo seguire il nostro sentiero “vedendo” nel suo aspetto profondo e reale quella che fino ad un momento prima avevamo considerato la verità.

Retto Pensiero
Diverse sono le traduzioni del termine che dalla lingua pali indica il secondo punto, a me piace molto utilizzare pensiero, ma comunque potrebbe essere molto bene tradotto come aspirazione.
È quell’ atteggiamento che ci fa aspirare a qualcosa, avere un retto pensiero significa voler aspirare alla saggezza, all’ illuminazione. Il retto pensiero ci permette di comprendere che, sebbene qualcuno può avere l’illusione di essere felice, in realtà non è così, troverà sempre un motivo che turba questa convinzione. Purtroppo questo mondo non è fatto per essere totalmente felici; il retto pensiero ci permette, attraverso la meditazione e la contemplazione, di comprendere che noi non siamo fatti per questo pianeta, che noi siamo altro, che possiamo evolverci e comprendere altre verità più profonde. Il retto pensiero è l’aspirazione, l’intenzione a comprendere, realizzare, penetrare la realtà della nostra stessa esistenza e di tutti i fenomeni. Il retto pensiero dovrebbe accompagnarci quotidianamente, in ogni istante della nostra giornata, per spingerci a concentrarci sulla verità, ad analizzare tutto ciò che viviamo e trarne fuori la verità. Unito alla retta visione ci permette di compenetrare i fenomeni, farne nostra la loro verità ultima e vivere  crescendo come essenza spirituale.
Per concludere su questi primi due punti, mi permetto di riportare un brano a riguardo, del Ven. Ajahn Sumedho:Avere l’idea di essere un individuo, di essere un uomo o una donna, di essere inglese o americano, ci sembra molto reale, e ci arrabbiamo se qualcuno ci contesta. Arriviamo fino al punto di ucciderci a vicenda a causa di queste idee condizionate a cui teniamo, a cui crediamo e che non mettiamo mai in discussione. E mai ne vedremo la vera natura senza la Retta Aspirazione e la Retta Comprensione.”

Fino a qui abbiamo visto i due aspetti dell’ottuplice sentiero che, come dicevo all’inizio, riguardano la sfera della saggezza. I successivi tre, possono essere considerati come condotta morale che, chi persegue il sentiero dovrebbe rispettare. Ripetendoli brevemente sono: retta parola, retta azione e retti mezzi di sostentamento.

Retta Parola
Al di là del fatto che a molti andrebbe spiegato come usare le giuste parole nel senso di rispettare la grammatica e qualche altra regolina base della lingua, in questo caso italiana, la retta parola dell’ottuplice sentiero ci indica come usare le parole in relazione al mondo che ci circonda, alle miliardate di esseri che vive cono noi su questo pianeta. Osservare una condotta di rette parole, significa non mentire, non usare parole che siano di divisione, cioè che portino persone ad allontanarsi, non usare parole violente o che possano scatenare violenza, non lasciarsi andare a pettegolezzi o dicerie. Vi sembra facile e scontato? Provate ad analizzare in una giornata, ma no siamo elastici, in una settimana, quante volta non avete rispettato almeno una delle condotte descritte qui su. Come diceva il papà del coniglietto nel cartone animato di Bambi “se non sai cosa dire, meglio se stai zitto”. Quanto sarebbe utile per molte persone.
Prendiamo anche atto che, se usiamo atteggiamenti non corretti, come quelli appena descritti, non stiamo facendo danno solo ad altri, che già di per se è sbagliato, ma stiamo facendo danno a noi stessi. Innanzitutto stiamo creando karma negativo (anche di questo parleremo in seguito) ma dobbiamo essere coscienti che tutto ci ritorna. Questo concetto della potenza delle parole e dei problemi che creano quelle sbagliate non è solo del buddismo ma anche la saggezza popolare ne ha portato vari esempi, come il famoso “ le bugie hanno le gambe corte”, oppure “ferisce più la penna che la spada”.
Quando penso o parlo di questo concetto, non posso fare a meno di considerare in che modello di società viviamo, in qualsiasi programma televisivo si urla, si discute con violenza, si accendono discussioni feroci più o meno costruite artificiosamente. Questo è il modello che si assorbe e che poi si trasmette nella vita quotidiana, sia da parte degli adulti che purtroppo dei bambini. Evitare di fare ciò è possibile, applicando la retta parola alla nostra vita. Ma da dove scaturisce questa abitudine? Dal retto pensiero. Ecco che il retto pensiero che ci deve accompagnare, come detto, quotidianamente, ci aiuterà a relazionarci al meglio con gli altri.


Retta Azione
Siccome non siamo solo degli oratori, ma compiamo anche innumerevoli azioni durante la nostra vita, ecco che dovremmo anche applicare la retta azione. Se con la retta parola evitiamo di creare danni agli altri ma anche a noi stessi, con le azioni possiamo fare danni notevoli e quindi sarebbe giusto evitare di compierne di dannose. Immediatamente possiamo identificare le classiche “malefatte” del tipo non uccidere, e parliamo anche di animali, non arrecare danni ad altri, avere rispetto per il pianeta in cui viviamo quindi evitare di inquinarlo. Una condotta diciamo quindi  molto normale, ed infatti il buddismo ci esorta ad essere persone normali, nessun supereroe. Compiere azioni rette significa aiutare senza aspettarsi nulla in cambio, ma farlo solo per il piacere di aiutare; non avere una condotta sessuale scorretta, quindi evitiamo di tradire il partner. Applicare quindi una condotta di rette azioni, è semplicemente comportarsi con rispetto e benevolenza verso gli altri.
A questo punto, impegnandoci ad un comportamento retto per quanto riguarda parole ed azioni, diventa conseguente che venga seguito anche il metodo dei

Retti Mezzi di Sostentamento
Per i monaci questo è un punto molto importante, in quanto non possono maneggiare denaro e vivono di offerte quindi il loro sostentamento dipende molto da altri. Per quanto riguarda i laici significa, ricollegandosi alle rette azioni, non procurarsi cibo ma anche denaro, con furto o truffa o con azioni che possano arrecare danno ad altri o a se stessi. Non uccidere animali per cibarsene (questo non significa essere vegetariani, ma anche questo lo vedremo in seguito). Non procurarsi guadagno con mezzi illeciti o ad esempio che portino altri ad essere dipendenti da droghe, o che arrechino danni anche ecologici al nostro pianeta.  

Abbiamo visto fin qui i tre aspetti che riguardano la sfera della moralità, come spero sia chiaro, applicare questi aspetti del sentiero alla nostra quotidianità viene comunque favorito dal giusto sviluppo della retta visione e del retto pensiero.
Certamente in aiuto ci vengono anche gli altri tre aspetti del sentiero:
Retto Sforzo,  Retta Consapevolezza,  Retta Concentrazione
Con questi aspetti andiamo nella sfera della concentrazione.
Abbiamo visto che seguire il sentiero non è proprio una passeggiata al parco ma piuttosto un bel sentiero di montagna. Come in montagna bisogna andare ben attrezzati e preparati, per seguire il nostro sentiero abbiamo bisogno di sforzo, quello che ci permette di cambiare abitudini, modi di fare e di essere che fino ad oggi ci avevano accompagnati. Della consapevolezza delle azioni che svolgiamo e della concentrazione costante per fare tutto ciò.
A questo punto non resta che provare a percorrere questo cammino e questo va fatto singolarmente senza adagiarsi solo sul leggere queste righe o magari approfondire con altre letture. Studiare, analizzare, realizzare e poi mettere in pratica, sperimentare, agire. Questa è la pratica dell’Ottuplice Sentiero.






domenica 1 novembre 2015

La Terza Nobile Verità

Fin qui abbiamo visto due aspetti della sofferenza: esiste (prima verità) e ha un’origine (seconda verità).
Con la terza nobile verità, finalmente cominciano le buone notizie: la sofferenza può cessare.
Ma per far cessare la sofferenza dobbiamo lavorare tanto. Quindi è si una buona notizia ma dobbiamo lavorarci e soprattutto lavorare su noi stessi… paura!!
Ricordiamo qual è la causa della sofferenza:  l’attaccamento.
Come, o meglio quando cessa la sofferenza? La risposta è facile: quando ci liberiamo dall’attaccamento.
Ma si dai e che ci vuole.
Per liberarci da esso, o almeno iniziare a provare a farlo, dobbiamo comprendere appieno la realtà delle cose, cioè la loro impermanenza. Tutto ciò che nasce cessa.
Cominciamo a lavorare su questo.
Ogni oggetto, ogni pianta, ogni essere vivente, il nostro stesso corpo è destinato a finire. Qualcuno qui potrebbe dire che la scienza definisce che tutto si trasforma e nulla si distrugge; bene, non siamo lontani dal nostro concetto: comunque cessa di esistere per come è, sebbene si “trasformi” in altro.
Ogni sensazione, ogni emozione, ogni piacere, ma anche ogni cosa spiacevole è destinata a cessare.
 Ogni pensiero, ogni idea, ogni soddisfazione ed ogni fastidio cessano.
Come disse un mio amico monaco, durante una nostra conversazione: “ogni istante è impermanente”!
La domanda che possiamo farci è: vale la pena di essere “attaccati” a qualcosa che, inevitabilmente, finirà? Se pensate di sì continuate ad esserci attaccati, nessuno vi costringe a fare il contrario, poi nel tempo osservate che succede. Se invece cominciate a pensare che forse non ne vale la pena e si potrebbe sperimentare qualcosa di diverso, allora tocca vedere come si può fare.
Diamo un’occhiata alla quotidianità; dal momento in cui ci svegliamo siamo a contatto con una miriade di oggetti, dagli ingredienti della colazione agli indumenti che decidiamo di indossare; dall’auto che usiamo per muoverci, al cellulare che portiamo sempre con noi. Ma non ci sono solo oggetti nella nostra giornata, ci sono persone, dai familiari ai colleghi a chi incontriamo per caso. Ci sono azioni “rituali” che ripetiamo più o meno frequentemente.
Fermiamoci a pensare a quanto  di ciò appena menzionato siamo attaccati.
Ora prendiamoli in esame per quello che sono e vedremo che, nel loro esistere sono impermanenti. Un’auto, un cellulare non dureranno per sempre, anzi. Le azioni che svolgiamo, inevitabilmente, cambieranno nel tempo, quindi cesseranno a favore di altre. Le persone verranno inevitabilmente a mancare. Allora chiediamoci se vale la pena di esservi attaccati.
Non esservi attaccati non significa, ripeto, rinunciarvi, fare gli eremiti, significa sapere che cesseranno, viverli sapendo che non ci saranno più. Significa vivere la propria vita con la consapevolezza di lasciare andare. Vorrei portare un esempio, forse un po’ duro per qualcuno, di una circostanza a cui ho assistito:  “un paio di anni fa ad un monaco di un importante monastero di scuola tibetana, venne presentata una persona in evidente stato di sofferenza emotiva, venne detto al monaco che questa persona soffriva per la perdita di un caro anziano parente. La risposta del monaco fu:”perché, che si aspettava?”
Questo, a mio parere, racchiude un grande insegnamento sul significato e la comprensione dell’impermanenza.
Se l’attaccamento è la causa origine della sofferenza, vivere con la consapevolezza che tutto è destinato a cessare eliminerà la causa e di conseguenza la sofferenza. Inoltre si potrebbe imparare a vivere al meglio le cose, dagli affetti alle situazioni, dalle emozioni alle  sensazioni, ricordiamoci che non solo le cose a cui siamo legati cesseranno, ma anche le situazioni che ci creano danno. Troppo spesso oggi si vive con superficialità, in occidente hanno creato la società del mordi e fuggi, uno stile di vita dove si ha la sensazione di avere tutto o volere tutto, ma non si assapora nulla. Vivendo appieno le cose, sapendo che finiranno, inevitabilmente, le farà certamente apprezzare meglio. Un esempio molto pertinente è stato fatto più volte e da diversi monaci durante alcuni incontri. Ultimamente mi ha divertito l’espressione usata da una monaca italiana, di scuola tibetana: “ Ho visto gente mangiare in piedi”. Troppo spesso non facciamo caso neppure a cosa mangiamo, lo facciamo distratti pensando ad altro, parlando d’altro, guardando la tv. Tutto ciò non va bene per il nostro corpo e meno per la nostra mente, anche quel cibo presto finirà, perché lo stiamo mangiando, godiamone l’aroma, il sapore. Poi il nostro organismo ne godrà delle qualità nutritive.
Per arrivare a comprendere e a vivere tutto ciò, non abbiamo bisogno di inventarci qualcosa o arrovellarci  sul come fare. Il Buddha ci ha spiegato tutto nell’esposizione della Quarta Nobile Verità.



martedì 6 ottobre 2015

Introduzione alla meditazione


Quando si sente parlare di buddismo, si pensa quasi subito alla meditazione. Certo la meditazione è una tecnica molto utilizzata nella pratica buddista, ma a parte avere origini precedenti, è utilizzata da tante religioni e non religioni.
La meditazione, o sarebbe meglio dire le tecniche meditative, in quanto ce ne sono davvero tante, vengono utilizzate da yogi, buddisti, cristiani, praticanti della new age e tanti altri. 
Ma a cosa serve? A tante cose. 
Di certo serve, come dice lo stesso termine “ a pensare”.
 Ricordate il vecchio: “meditate gente, meditate”? I più giovani forse no, ma quelli della mia età ricordano questo tormentone televisivo.
Serve molto ad approfondire la comprensione di se stessi, a capire, ad osservarci da dentro. In effetti può sembrare strano, ma è un metodo per osservare la nostra mente, così come è un metodo per tirare fuori da noi stessi delle conoscenze e delle caratteristiche “nascoste” ed approfondire argomenti che si studiano. Parlare di meditazione si potrebbe all’infinito, a questo punto proporrei di passare a qualcosa di più pratico per poi andare nei particolari pian piano, anche riguardo le varie tecniche ed i vari risultati che si possono ricercare. Così come a volte dico a qualcuno: “sul cuscino, a meditare”.


MEDITAZIONE

Dove meditare: un luogo tranquillo, una stanza o anche all’aperto (inizialmente è più difficile). Importante evitare rumori che possano distrarci. Magari accendiamo un incenso e delle candele, per “creare l’atmosfera” ma non è indispensabile.

Iniziamo a sederci:

varie sono le posizioni che si possono assumere, importante è che si stia comodi e non ci siano parti del corpo in tensione che potrebbero distoglierci la concentrazione.




La posizione classica è quella del loto, ma anche molto difficile per la maggior parte delle persone. Molto più praticabile il mezzo loto. Si consiglia di usare un cuscino tale da avere il bacino leggermente sollevato rispetto alle ginocchia, per non mettere in tensione gli arti.














Le mani: nella meditazione tibetana hanno i palmi verso l’alto con la destra che poggia leggermente sulla sinistra ed i pollici che si toccano a formare un triangolo

Nella Zen le mani sono invertite.

La schiena è dritta, immaginiamo sia una pila di monetine in equilibrio e cerchiamo di tenerla così.

Le spalle ed il collo, le parti che normalmente accumulano le tensioni, sono completamente rilassate.

La bocca è chiusa in modo naturale, con la lingua che tocca la parte superiore del palato, questo riduce la salivazione e conseguenti distrazioni.

La testa leggermente in avanti.

Gli occhi sono socchiusi, puntando lo sguardo verso la punta del naso, da cui si immagina partire una linea verso il pavimento che prosegue l’angolatura del naso stesso.

Ora meditiamo:
 Concentriamoci sulla respirazione, seguiamo semplicemente il respiro senza forzarlo, poniamo la mente a seguire il movimento dell’addome e concentriamoci su: “sto inspirando” “sto espirando”. Seguiamo l’addome e prendiamo consapevolezza dei movimenti, se capita un respiro più profondo, semplicemente prendiamone atto, senza modificare nulla. Immaginiamo il flusso d’aria che entra da una narice, fa il giro sulla testa passa dalla nuca ed arriva alla fine della spina dorsale, per poi risalire dal canale parallelo ed uscire dall’altra narice.  


Cerchiamo di rimanere concentrati su questo il più possibile. In alternativa al movimento dell’addome, possiamo concentrarci sul flusso d’aria tra la narice ed il labbro superiore, utilizziamo il metodo che ci è più congeniale. A questo punto la mente inizierà a comportarsi, come la definiscono in India, da scimmia impazzita. Produrrà pensieri, spesso preoccupazioni che abbiamo, prendiamone solo atto, ci sono, non dandogli importanza spariranno da soli.
Torniamo alla nostra respirazione, o meglio restiamo su essa. La mente allora cercherà piacere, produrrà immagini e pensieri piacevoli, stessa cosa: prendiamo atto che ci sono e lasciamoli svanire. Riportiamo sempre la concentrazione solo sulla respirazione.
Cerchiamo di rimanere in questo stato il più possibile, chiaro che all’inizio anche solo un minuto o due, possono sembrare tantissimi, non siamo abituati ad osservare la nostra mente, a governarla, anziché farci governare.
Dopo un po’ di allenamento si potrà poi passare alla meditazione analitica, cioè meditare su un argomento che si è studiato, oppure effettuare visualizzazioni per sviluppare determinate caratteristiche, ad esempio la compassione, o meditazione improntata a migliorare eventuali disturbi fisici. Teniamo presente però che, qualsiasi tipo di meditazione andremo ad affrontare, la parte iniziale è sempre questa, per cui è estremamente importante imparare a praticarla nel miglior modo possibile, il che ci porterà ad essere noi che “governiamo” la nostra mente. 

domenica 4 ottobre 2015

La Seconda Nobile Verità


Abbiamo visto in precedenza (qui) che, nella spiegazione della prima nobile verità, il Buddha ci dice che la sofferenza esiste. Come tutte le cose, tutti i fenomeni, per esistere ha bisogno di un’origine, di una causa. Nella realtà di tutti i giorni è facile comprendere che tutto ha un’origine, un oggetto esiste in quanto costruito, un essere vivente esiste in quanto nato, quindi anche la sofferenza, visto che esiste, ha un’origine. Ma quale è la sua origine, la sua causa? Nella seconda verità ci viene spiegato in modo molto chiaro: è l’attaccamento.
Attaccamento… cioè?
Per attaccamento intendiamo i tanti desideri, desideri materiali, dei sensi, della personalità.
Ma andiamo con calma.
Ogni giorno proviamo desiderio. Quando abbiamo fame e vorremmo un certo cibo, oppure una bevanda particolarmente gradita. Quante volte ci capita di vedere un oggetto e desiderare, appunto, di averlo, di possederlo. Tante volte ancora, vorremmo essere diversi, magari nell’aspetto, ci si tinge i capelli, si arriva ad interventi per modificare il nostro corpo, oppure si vorrebbe avere un carattere diverso, si vorrebbe agire diversamente.
Possiamo provare a riconoscere questi atteggiamenti quotidianamente, proviamo a farlo, è un buon esercizio per approfondire. Durante il giorno, iniziamo a far caso quando sorge un desiderio come quelli accennati sopra e impariamo a riconoscerlo.
Ricapitolando la sofferenza viene dall’attaccamento, mentre l’attaccamento e i desideri che ne derivano vengono fuori dall’ignoranza che la mente ha verso la realtà delle cose.
Comincia a farsi complicato?
Proviamo a venirne a capo.
Il Buddha non ci dice che sia sbagliato avere desideri, ma ci spinge a capirne la natura e distaccarcene, non avere quindi attaccamento. Proviamo con un esempio: vedo in una vetrina un bel modello di smartphone, mi piacerebbe averlo, quindi provo desiderio. Forse costa troppo e non posso permettermelo, ecco che sorge la sofferenza. Lo vorrei, lo desidero, non posso: soffro.
Mettiamo che riesco a comprarlo, sono contento, lo porto a casa, è “mio”. Credete che il giorno dopo proverò la stessa soddisfazione del giorno prima? Provate, io dico di no. E questo creerà altra sofferenza, per il semplice motivo che inizieremo a desiderare qualcos’altro.
Stessa cosa potremmo riferirla ad un buon cibo, ad un vino pregiato, ma anche a condizioni non materiali, vorremmo essere meglio compresi dagli altri, vorremmo avere un carattere diverso per piacere di più. Tutti questi desideri e tanti altri, creano sofferenza, sono la sua origine.
A qualcuno potrebbe a questo punto sembrare che per essere felici, secondo quanto detto, bisognerebbe vivere in una specie di nichilismo, non desiderare, non volere.
No, non ci è stato detto questo.
I desideri fanno parte della vita umana, mangiamo perché il corpo ha bisogno di nutrirsi, viviamo in un mondo dove bisogna vestirsi, spesso in determinati modi e comunque vivere in società. Allora come se ne esce? È semplicemente il modo di vivere i desideri. Riconoscerli, come dicevamo prima, e lasciarli andare, non dargli importanza, non attaccarvici. Ecco che se non c’è attaccamento, non c’è l’origine della sofferenza.
Riassumendo e provando a delineare un po’ le cose quindi abbiamo desideri relativi al nostro ego, desideriamo soddisfazioni e realizzazioni cosiddette personali.
Desideri legati al nostro corpo: un look particolare, un abbigliamento, ma anche soddisfazioni legate ai piaceri come il cibo o il sesso.
Desideri legati alla sfera interpersonale: essere accettati dagli altri, essere circondati da affetti, da persone care.
 Infine desideri di beni materiali, un’auto nuova, migliore di quella che abbiamo, una casa più grande, oggetti vari spesso anche inutili.
Bene tutto ciò finora elencato non fa altro che creare sofferenza soprattutto per tre aspetti comuni: non poterlo avere, perderlo o eccedervi.
Ricordate? Da piccoli ci dicevano che mangiare troppa cioccolata ci avrebbe fatto venire mal di pancia, ecco che eccedere ci crea sofferenza. Come crea sofferenza avere qualcosa e perderla, se ci si è “attaccati”.
Torno a ripetere, come detto prima, che ciò non significa dover vivere senza rapporti interpersonali, affettivi, o fare l’eremita e non possedere nulla per sconfiggere la sofferenza, tanto quella esiste. Ma il Buddha ci ha detto che la sofferenza ha una fine e che esiste una via, un percorso che porta alla sua cessazione. Quindi prima di deprimersi, cosa molto contraria al buddismo, andiamo a vedere come la sofferenza può cessare.

 Per fare questo dovremo avere la volontà di scoprire le altre due verità insegnate dal Buddha nel suo primo sermone.

domenica 20 settembre 2015

I primi insegnamenti:

Con la nostra storia, abbiamo lasciato il Buddha all’esposizione del suo primo insegnamento.
Qual’era il suo primo discorso? “La sofferenza esiste”!!
Qui possiamo immaginarci le espressioni di chi lo ascoltava, ricordiamo che siamo in India 2600 anni fa, un paese non proprio facile. Avranno pensato che era davvero una gran novità, per chi faceva fatica, come si suol dire, a mettere insieme il pranzo con la cena.
Ma quello era l’inizio della soluzione alla sofferenza.
Il Buddha nel suo primo sermone, spiega quelle che verranno definite “Le quattro Nobili Verità”:

La sofferenza esiste
La sofferenza ha delle cause
La sofferenza ha una fine
Esiste un cammino che porta alla fine della sofferenza.

La prima Nobile Verità

Il fatto che esista la sofferenza potrebbe sembrare un cosa più che ovvia, eppure spesso, quando mi capita di parlarne,  mi sento rispondere che, certo esiste, ma non per tutti, ed anche sento persone che si definiscono completamente felici. In realtà basta molto poco, qualche domanda e qualche spunto di riflessione, per far crollare queste affermazioni.
Molto spesso infatti si pensa alla sofferenza fisica, sentimentale, oggi spesso, economica; se andassimo ad analizzare a fondo le vite delle persone, per quanto felici ci possano sembrare, troveremmo sempre un motivo di sofferenza, basta allargare la nostra visione di sofferenza.
Ma quindi qual è la novità della sofferenza nella descrizione del Buddha? Lui non ha detto che gli esseri soffrono o che magari , lui, avendo raggiunto l’illuminazione era ormai superiore e non soffriva più. Ha dato alla sofferenza un’esistenza propria: la sofferenza esiste.
Il secondo punto che spiega è che quindi dobbiamo riconoscere la sofferenza o meglio “comprenderla”. Comprendere significa in questo caso, vederla per quello che è ed accettarla; attenzione, non significa starsene lì a piangersi addosso, significa osservare da un punto diverso. E’ uso comune dare le colpe delle nostre sofferenze a situazioni o persone esterne a noi, “se mia madre non mi avesse sgridato non avrei pianto” “se il capufficio non mi avesse riempito di lavoro, non avrei avuto mal di testa” e così via. Ma guardiamo le cose da un punto diverso, la sofferenza esiste, comprendiamola e capiamo che la vera sofferenza non è quella situazione, ma la sofferenza che generiamo nella nostra mente pensando a quella situazione.
Se il capufficio ci ha riempito di lavoro, noi lo abbiamo svolto, se poi, per giorni continuiamo a pensare a quella situazione, ci laceriamo di sofferenza che stiamo creando nella nostra mente. Proviamo quindi ad esplorare le situazioni quotidiane: il vicino che non ci saluta, il passante scortese o altre piccole cose. Riconosciamo in queste: questa è sofferenza, facendo questo esercizio quotidianamente, arriveremo alla comprensione della prima verità, la comprensione della sofferenza. Dovremmo arrivare a comprendere che sebbene tante situazioni ci sembrano “ostili”  la sofferenza che proviamo, è quella generata nella nostra mente dal non essere ancora in grado di riconoscerla. Conosco tante persone che rimuginano e parlano per lungo tempo di una situazione non piacevole, ostile, ma quella situazione c’è ancora? No! La stanno rivivendo nella loro mente, stanno soffrendo da soli, semplicemente perché non vanno oltre, non sono ancora arrivati a comprendere.
Secondo uno dei testi più importanti del buddismo, vi sono poi diversi tipi di sofferenza:
la sofferenza della sofferenza, la sofferenza del cambiamento, la sofferenza pervadente.
Vediamo in cosa consistono.
La sofferenza della sofferenza si riferisce ad esempio ai dolori del corpo, un mal di testa, un mal di denti. La sofferenza del cambiamento si manifesta, ad esempio, quando mangiamo troppo; inizialmente abbiamo una sensazione di piacere, ma poi arriva il mal di pancia. Anche nelle relazioni si può sperimentare questo tipo di sofferenza, inizialmente i partner sono felici ed il rapporto fila bene, poi cambia qualcosa e ciò che dava gioia dà sofferenza.
La sofferenza pervadente la ritroviamo quando, ad esempio, all’interno di una nazione tutti, dal primo cittadino all’ultimo mendicante, soffrono. E’ il caso di Paesi con situazioni davvero difficili, oggigiorno purtroppo il mondo è pieno di esempi concreti.
Tornando al punto precedente della “comprensione”, proviamo ad esercitarci a riconoscere questi tipi di sofferenza, esistono, so che li troverete. Guardiamoci intorno.
Ma poi, anziché restare lì a “rosolare” nella sofferenza per lo più del ricordo, riconosciamola per quello che è: sofferenza, in antica lingua Pali dukkha (così iniziamo a prendere confidenza con termini tecnici), così facendo potremo arrivare a conoscere la sofferenza, riconoscerla, comprenderla per poi superarla.
Per fare ciò, diamo tempo all’Illuminato di spiegarci le altre Nobili Verità.



domenica 13 settembre 2015

Uno po’ di storia

Il Buddismo nasce in India, circa 2600 anni fa, quando un giovane principe di nome Siddharta Gautama ha una brillante intuizione.
Ma andiamo con ordine.
Il padre del ragazzo è il genitore che oggi definiremmo iperprotettivo, decide quindi di tenere il figliolo chiuso fra gli agi e i lussi del palazzo reale per evitargli il contatto con le brutture del mondo esterno.
All’interno del palazzo gli combina anche un bel matrimonio.
Ma Siddharta è un tipo un po’ curioso e decide di andare a vedere cosa c’è fuori da quelle mura.
La leggenda narra che per quattro giorni consecutivi uscì di nascosto dal palazzo da quattro porte diverse sui quattro lati. Ad ognuna di queste uscite, il giovane si scontra con le realtà della vita: la nascita, la malattia, l’invecchiamento, la morte. Riconoscendo in tutte il comune denominatore della sofferenza.
Da bravo ragazzo qual’era, decide che deve fare qualcosa per risolvere le sofferenze degli esseri umani. Annuncia quindi che lascia il palazzo e va nel mondo, lasciando di conseguenza anche moglie e figlio intanto nato.
In quell’epoca, in India, la via più comune per una ricerca spirituale era l’ascetismo ed infatti Siddharta si unisce ad un gruppo di asceti che viveva nei boschi. Dopo qualche anno di ricerca, fra digiuni e pesanti pratiche realizza che non è, a suo parere, quella la giusta via e, dopo avere accettato del cibo da una signora, lascia il gruppo, che comunque lo vedeva già come un traditore della Via per aver accettato del cibo.
Prosegue il suo cammino e dopo una parentesi nuovamente nel lusso e nei piaceri, avendo incontrato una nobile donna che lo ospitava al suo palazzo, riprende la sua ricerca solitaria, arrivando presso la città oggi chiamata Bodhgaya dove, assorto per 49 giorni in meditazione, resistendo a tentazioni e sofferenze, seduto sotto un albero di Bodhi “vede” la realtà di tutti i fenomeni.
Risvegliatosi, è proprio la parola giusta, cammina fino a Sarnath presso la città attualmente chiamata Varanasi, dove in un luogo chiamato “Il parco delle Gazzelle” è pronto ad esporre l’insegnamento che avrebbe dato il via al buddismo. Ironia vuole che i suoi primi ascoltatori furono i cinque compagni asceti che lo avevano ripudiato, i quali dapprima si dicono disinteressati a qualsiasi cosa possa stare per dire ma poi, riconoscendo in lui una luce diversa lo ascoltano, per diventare i primi discepoli del Buddha, l’Illuminato.

Da quel momento il Bhudda ci consegna i suoi insegnamenti fino al momento in cui lascia il corpo, superati gli ottanta anni. Lascia tutto in forma orale. Insegnamenti che verranno poi trascritti dai suoi discepoli diretti in forma di Sutra, circa 2500 e che, studiati, rivisti e perfezionati da grandi  filosofi e illuminati, faranno sì che il Buddismo si propaghi in gran parte del mondo. Dando vita a varie scuole che seguono rituali e metodologie diverse, che a volte possono sembrare anche distanti tra loro, ma che rispecchiano quanto detto dal Bhudda: “nel corso dei tempi apparirò in forme diverse, insegnando in modo diverso, per essere sempre compreso in base al tipo di uditori”.

La prima volta che si sente parlare di Buddismo, sono varie le definizioni che si possono ascoltare, da “si pratica il buddismo per essere felici” a “ ripeti questo Mantra mezz’ora al giorno e realizzerai i tuoi desideri” per passare al “la vita è fatta di sofferenza” o anche “crea il vuoto nella tua mente” per citare solo alcune delle cose che ci si sente dire, oltre alla classica diatriba “è una religione” “ è una filosofia”. Chiaro che fra quelli che ascoltano queste definizioni, alcuni lasciano correre, qualcuno se ne interessa e magari approfondisce, qualcun altro decide di darsi alla Rastafariana, almeno in Jamaica ci si diverte più che in India. Dopo un po’ di anni dalla prima volta che ho sentito parlare di buddismo, mi sentirei di dire che le definizioni prima citate possono valutarsi tutte vere e tutte non vere.Ho pensato quindi di provare, con questo blog, a parlare, in maniera leggera e il più possibile elementare di uno degli argomenti più affascinanti ed anche complessi che attualmente occupa enormi volumi e scritti in quasi tutte le parti del mondo.Magari ciò farà storcere il naso a qualche “purista”, ma mi auguro di poter anche instaurare un confronto con chi avrà voglia di leggere, sempre nei canoni della buona educazione e del rispetto reciproci e sempre con molta leggerezza.